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Bisanzio e la sua civiltà - Alexander P. Kazhdan - copertina
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Bisanzio e la sua civiltà - Alexander P. Kazhdan - copertina

Descrizione


Monachesimo e diritto, architettura e musica, letteratura e pittura in una ricostruzione unitaria delle linee fondamentali della civiltà bizantina nell'arco della sua lunga storia e in particolare durante i suoi tre secoli cruciali, quelli che vanno dal X al XII. Il costante contrappunto che Kazhdan stabilisce con il Medioevo occidentale mette in luce coincidenze e differenze che rendono il mondo bizantino a noi più vicino e "contemporaneo".
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Dettagli

3
2007
Tascabile
1 giugno 1995
XV-234 p., ill. , Brossura
9788842046912

Valutazioni e recensioni

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sandro landonio
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Il titolo originale dell' opera"Cultura bizantina X-XII sec." é più rispondente al contenuto rispetto alla scelta editoriale italiana. L'opera effettua un confronto su due livelli, uno storico: la società e la cultura bizantina nel X e nel XII secolo, ed uno geografico: medioevo bizantino ed occidentale. Interessante l'analisi sulle ragioni dello scisma d'Oriente. Non lineare la tesi del "dualismo superato": sembra più un pallino dell' autore che un fatto evidente.

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Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1983
recensione di Cavallo, G., L'Indice 1985, n. 5

"Il sole non aveva ancora illuminato la metà della superficie terrestre e già tutta quanta la città era caduta in mano ai pagani. Ogni ricchezza ed ogni preda viene trasportata alle tende; tutti i cristiani, in numero di circa sessantamila, legati con funi, cadono prigionieri. Le croci, strappate dalle cupole e dalle pareti delle chiese, furono calpestate sotto i piedi- vennero violentate le donne, deflorate le fanciulle, oltraggiati turpemente i giovinetti, contaminate con atti di lussuria le monache e quelle che le servivano. Dio mio, quanto devi essere adirato contro di noi, con quanta durezza hai distolto il tuo volto da noi tuoi fedeli! Che dire? Tacerò o racconterò le offese arrecate al Salvatore e alle sante immagini? Perdonami, o Signore, se narro crimini così orribili... Gettarono a terra le sacre icone di Dio e dei santi e su di esse compirono non solo orge, ma anche atti di lussuria. Poi portarono in giro per gli accampamenti il Crocefisso, facendolo precedere da suoni di timpani, per irrisione, e lo crocifissero di nuovo durante la processione con sputi, con bestemmie, con offese...". Così una delle tante cronache contemporanee sulla caduta di Costantinopoli. Era il 29 maggio 1453; e Bisanzio -la città delle mura che un cavallo non nusciva a percorrere in una intera giornata, del trono imperiale innalzato fino al soffitto di una sala risuonante del canto di uccelli meccanici, delle liturgie celebrate in un intarsio di ori marmi icone-era investita e distrutta dai Turchi.
Ma che cosa erano state Bisanzio e la sua civiltà? Messe da parte una volta per tutte le scontate e usurate (oltre che scientificamente scorrette) immagini di una Bisanzio oleograficamente raffinata o sottilmente discettante, si tende ormai ad abbandonare, nonostante qualche resistenza, anche la visione stereotipa di una Bisanzio granitica nella sua continuità statica ed immutabile, nella quale si esasperano le esperienze autocratiche della tarda antichità, si esaltano le rivendicazioni ortodosse di una teologia fortemente dogmatica, si estenuano le tradizioni culturali dell'ellenismo. E tuttavia a questo schema (o schemi) non se ne è ancora sostituito un altro alternativo che sia comunemente accettato; ed invero lo studio della civiltà bizantina è entrato in questi ultimi anni in una fase assai fluida di approcci diversi, riflessioni nuove, riscoperte sorprendenti, soluzioni audaci. Il che mostra già di per sé la complessità di un quadro sottratto al tradizionale canone interpretativo e radicalmente rivisitato.
Il volume di Alexander P. Kazhdan - originale pubblicato in lingua russa nel 1968 - costituisce un momento fondamentale nei modi nuovi di accostarsi alla civiltà bizantina lungo un itinerario di ridefinizione degli studi che può ritenersi iniziato con la pubblicazione di un fortunato volume, "Reich der neuen Mitte" di Herbert Hunger del 1965, e che giunge-attraverso opere di rilievo come quelle di André Guillou, Alain Ducellier, Hans-Georg Beck-fino a "Byzantium. The Empire of New Rome" di Cyril Mango del 1980. Un itinerario che, pur nella diversità di approcci e di risposte, trova un suo comune modo di snodarsi nella ricerca di una nuova griglia di interpretazione globale dell'universo bizantino, considerato nella totalità di componenti che si integrano a vicenda e non come una somma di settori indagati singolarmente. Quel che va immediatamente notato è che-pur con certe innovazioni di metodi, prospettive, riletture-Hunger, Guillou e Beck restano comunque legati all'idea di una continuità di Bisanzio, ed anzi Beck, "Il millennio bizantino" (trad. it. Roma, ed. Salerno, 1981). tende a riportare il confine tra antico e bizantino anche più indietro dell'età costantiniana, risalendo fino al'età ellenistico-romana; e quanto a Ducellier, nonostante segua strade interpretative originali, nel suo "ll dramma di Bisanzio" (trad. it. Napoli, ed. Liguori, 1980) non giunge tuttavia all'audacia di rivisitazione della civiltà bizantina quale sviluppata ultimamente da Mango, ma già prospettata da Kazhdan.
Per quest'ultimo la sostanza dell'universo di Bisanzio è quello ch'egli chiama "individualismo senza libertà", e per intenderne tutta la portata si deve risalire al momento che segna la nascita autentica di quell 'universo , non certo l' età costantiniana, ma il secolo VII, entro il quale, in seguito alla crisi della società urbana, si iscrive lo stacco di cultura, consuetudini, mentalità dalla tradizione tardoromana. Le origini non evenemenziali di Bisanzio sono dunque segnate da una discontinuità, che finirà col riverberarsi, condizionandone gli esiti, su tutti gli aspetti della sua civiltà; ma una discontinuità che non cancella la imponente eredità del passato, classica e cristiana, la quale, anzi, diventa coscienza, fa scattare meccanismi di recupero, si irrigidisce in forme di orgogliosa conservazione. È dunque da un irrisolto contrasto tra il sociale destabilizzato e il peso coercitivo dell'eredità del passato che nasce l'"individualismo senza libertà".
A determinare tale discontinuità nel corso del VII secolo-ma più dello stesso Kazhdan sarà Mango a sottolinearne significato e implicazioni - è, s'è detto, il crollo delle strutture urbane e perciò l'estinzione dl tutto un sistema di relazioni sociali ad esse connesse, fossero frequentazioni scolastiche, riunioni nelle librerie, spettacoli teatrali, giochi del circo: fu dunque questo crollo a lasciare solo l'uomo bizantino, fu la mancanza di nuovi modi di aggregazione sociale a spingere l'individuo a chiudersi in un conformismo delle credenze e delle azioni, fu la perdita definitiva di un sistema "di legami sociali orizzontali e verticali" che fece insorgere un diffuso senso di instabilità e insicurezza. Qui si tocca il punto sostanziale della divaricazione tra Bisanzio e l'occidente ove sulle rovine della società urbana venne e ricrearsi un nuovo sistema di referenti sociali rigidamente definiti (va detto che uno degli approcci più innovatori del volume di Kazhdan è proprio il confronto continuo con il mondo occidentale, che fa emergere più nettamente lo specifico di Bisanzio). In questa prospettiva si spiegano le coordinate fondamentali della civiltà bizantina. La teologia poté risolversi-nell'affannosa ricerca della salvezza dell'anima - in posizioni dottrinali diversificate che investivano società e individui e che non potevano non sfociare in controversie sottili e affilate. L'ortodossia politica non fu imposizione della volontà dell'imperatore, ma conformismo di una società che l'autocrazia si llmitava soltanto a coprire. La letteratura e l'arte, modellate su archetipi immutabili del passato orgogliosamente conservati, furono certezze compensative di fronte al senso diffuso e angoscioso di instabilità e precarietà individuali. E fu ancora questo sentimento - si può aggiungere - che spiega la mentalità tutta libresca dei bizantini, la quale si rivela nella iterazione ossessiva di stereotipi letterari, di riprese testuali, di reminiscenze dotte, nel repertorio fisso di cognizioni scisse dall'esperienza, di concetti noti, di certezze tradizionali, nell'elaborazione di raccolte enciclopediche, di summae ed escerti di un sapere antico e scontato, di compilazioni ripetitive; mentalità che ha il suo referente nel libro - sia esso di astrologia o di oniromantica, di oracoli o di magia - anche quando l'uomo cerca risposte a inquietudini esistenziali, quando si sforza di spiegare eventi individuali o collettivi che sfuggono alla sfera del razionale, quando sente l'esigenza o l'urgenza del misterico, quando è mossa dall'ansia del futuro, quando vuol gettare la sguardo al di là della vita terrena. Il libro perciò finisce con l'assurgere a rifugio tranquillizzante di un individuale insicuro, che rinuncia a ridefinirsi criticamente per assoggettarsi all'autorità di una tradizione scritta, vincolante perché radicata nel passato. Ma v'è un fatto che forse più di ogni altro dà la misura della paura dell'uomo bizantino, del suo senvirsi "nudo" e solo in un mondo ostile: ed è la liturgia, che nel mettere l'individuo (non la comunità ecelesiale, come sarà in occidente), attraverso tutto un apparato di simboli colori immagini, a stretto contatto con il divino, gli permetteva di superare, nella performance del rito, la zona di confine tra immanente e trascendente, di risolvere la sua angoscia esistenziale. L'alienazione, dunque, come superamento dell'"individualismo senza libertà". È forse questa la ragione che rende moderna e attuale Bisanzio?

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