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Il dualismo artefatto-natura è sempre stato un tema caro alla letteratura fantastica prima e al genere science fiction poi. Le riflessioni di scrittori e sceneggiatori sul futuro dell'umanità hanno alimentato pressocché unanimi una visione del futuro dove tutto ciò che intendiamo naturale è ridotto ai minimi termini. Una manifestazione pratica attraverso l'arte di una inquietudine inconscia dell'uomo moderno altresì avvalorata da trattati socio-filosofici dell'analisi delle società industriali nel capitalismo maturo. Visioni di città inumane e di uomini ridotti a automi in una "realtà parallela" dove la vita appare schiava declassata di un sistema ufficiale e padrone. Forse non è più fiction, forse il salto nel paradosso parallelo è già avvenuto, ci viviamo già dentro senza rendercene conto. Le città di seconda generazione, per chiamarle come Marco, sono già le nostre città. Città piegate ad interessi e scopi immateriali, non umani, non reali dove la distruzione sistematica dei subcodici geometrici naturali ha effetti sull'uomo misurabili in termini di benessere fisico e psicologico (Alexander, Salingaros, Kellert, Evidence Based Design). L'essere umano viene educato a produrre per gonfiare ed alimentare una dimensione aliena, a distruggere, sfruttare ed inquinare il suo stesso habitat, a disumanizzare se stesso. La metropoli di Taipei, come le omologate periferie italiane, non sfugge a questa assurda legge. Chi vive ed opera secondo strumenti e canoni biofilici come i nomadi urbani o le originarie comunità locali rappresenta una minaccia per il sistema che, come nella peggiore pedagogia, vuole "salvarli da loro stessi" controllandoli e regolando le loro attività. Marco Casagrande propone una via d'uscita, una terapia per le nostre città malate, una strada per giungere a quella che chiama Third Generation City. Città come rovina della macchina industriale dove "the ruin" segna il riappropriarsi dell'artefatto da parte della natura.
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