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Dettagli

1992
7 aprile 1992
176 p.
9788877380975

Voce della critica

SOLINAS DONGHI, BEATRICE, La bella fuga e altri racconti, La Tartaruga, 1992
SOLINAS DONGHI, BEATRICE, Il fantasma del villino, Einaudi, 1992
recensione di Verdino, S., L'Indice 1992, n. 8

Due sono quest'anno gli appuntamenti editoriali con la scrittura di Beatrice Solinas Donghi: "La bella fuga" per i grandi e "Il fantasma del villino" per i piccoli, per i ragazzini; ma sono sicuro che anche i grandi si divertirebbero a questa lettura. Si tratta di un romanzo in una campagna di sfollati nei tempi bui della guerra (1944), raccontato in prima persona dalla protagonista, Lisetta, una ragazzina curiosa e paurosa; il libretto vale come una piccola prova di formazione, di integrazione tra immaginario fantastico della ragazza e aspetti della realtà, così da un lato ci sono il bosco che fa paura a percorrerlo da soli di sera, gli "orchi" ovvero i rustici abitanti delle cascine isolate, la villa antiquata e il relativo fantasma di una adolescente; dall'altro, sullo sfondo, i nazifascisti, i partigiani, i contrabbandieri e in primo piano Regina, la ragazza ebrea, nascosta nel villino, la ragione storica di quello che sembrava la presenza misteriosa (tra apparizioni e tracce discontinue) del fantasma.
Mi pare che questo abile ribaltamento di una storia gotica, con i relativi ingredienti, in una vicenda storica sia una felice costruzione del plot; inoltre l'innesto di una verosimile storia privata e umana con una grande tragedia è condotto in modo molto sorvegliato: Lisetta non diventa un'eroina, n‚ ha mai una irrevocabile presa di coscienza della cupa realtà con cui si imbatte: il piacere di una nuova amicizia, la curiosità, il gusto di avventura, le fantasie, i capricci trapuntano l'amicizia con Regina e il suo salvataggio oltre confine, complice il rustico zio Gustavo. Non si tratta di riduzione o consolazione idillica, ma di misura e di felice captazione di uno stato d'animo in formazione ondeggiante tra inconsapevolezza ed emotivo avvertimento. Valga per tutto il sobrio addio tra le ragazze: "Ciao, Lilli - mi disse - . In bocca al lupo - risposi, come si usa prima di un esame, e ci abbracciammo strette. Una ventata più forte passò nel fogliame dei castagni, rimescolandolo da cima a fondo come una mano potente". Se le battute del dialogo con la similitudine rappresentano la soglia di una riduzione, il breve e lirico scenario descrittivo offre una ben diversa solennità emotiva del momento, tanto da risultare memorabile alla fine del libro.
Gli otto racconti de "La bella fuga" ci danno un campionario articolato del tipico cosmo domestico da sempre caro alla scrittrice: la privilegiata prospettiva femminile, le occorrenze quotidiane, la cura antiquaria degli ambienti, un dialogato sobrio e vivace, di gusto goldoniano, l'analisi delle relazioni tra psicologie e eventi; un cosmo preciso che qui è rappresentato in diversi toni narrativi: il taglio onirico-allucinato, anglosassone, di "Le tre vite di Mary Steele", modulato però in toni rassicuranti e non ossessivi; i racconti a chiave ("Ritratto di dama"; "Nina") la foto di gruppo de "La casa delle sorelle"; il racconto-biografia di una suora nel Seicento genovese ("Tra quelle mura"); i racconti incentrati su una situazione specifica ("La bella fuga"; "Il corno del postiglione"); infine il racconto di poetica, per così dire ("Poco lume"). Anche ne "Gli sguardi" c'era un racconto ("Adelaide Horner") ricco di intenzioni dell'autrice; in entrambi i casi si tratta di profili di pittrici e si vuoi descrivere e dare il senso di una pittura femminile, affermandone la modestia e la dignità, in entrambi i casi si tratta un poco di autobiografie figurate.
La pittrice di "Poco lume" predilige figure "colte nella penombra di un ambiente ristretto e in atteggiamenti comuni"; il figlio della pittrice nello sbarazzare la casa dopo la morte della madre passa in rassegna queste tele, ma distratto, in modo rapido, senza rendersi conto dell'elaborazione pittorica di quella penombra "che era mossa sottilmente, dove più dove meno, da una sorta di fremito argenteo, o si diradava in un pulviscolo grigioperla"; il figlio non comprende in sostanza la pittura materna, svalutata come sfogo di una vita sacrificata, non riuscendo a capire "quei toni poco appariscenti, ma non banali n‚ facili".
Secco è il commento della narratrice: "Una sottile lezione di pittura andò dunque perduta"; nel figlio distratto ella forse ravvisa un suo possibile annoiato e inadeguato lettore? Può darsi; certo alla Donghi non fa paura n‚ l'incomprensione, n‚ la cancellazione di un'opera, dell'attività di una vita. Peggio per gli altri, per chi non sa leggere, sembra suggerire nella sua ruvida severità. Questo stesso racconto si chiude con una sentenza che è aurea per la scrittrice: "Le donne sono sempre state brave a farsi un impegno e una virtù delle limitazioni cui vanno soggette". È una frase anche discutibile, ma illuminante sul suo progetto di scrittura: la Donghi come scrittrice non ha mai puntato n‚ sul suo privilegio, n‚ sull'eccezione, ma ha portato nell'ambito della scrittura la condizione di limiti, di orizzonte domestico, tipico della maggioranza delle donne.
Ne "Il corno del postiglione", unico racconto da un punto di vista maschile, un giovane inglese alloggia di notte in una camera di locanda già occupata da due dame: gli capita di soccorrere la più giovane in una crisi di epilessia, poi di chiacchierar con lei "con una confidenza quasi coniugale" a bassa voce, e così non riesce a trovare e ritrovare il gesto e la voce giusti per una conclusione erotica come avrebbe desiderato e come la storia avrebbe prevedibilmente autorizzato. Non diversamente è il caso di "Tra quelle mura", dove la vicenda conventuale di Battistina Rossi non ha proprio nulla da condividere con la truce letteratura conventuale; la sua è semmai una battaglia a rovescio non della ribelle, ma della contenta, di quella che entra in convento gioiosa "con una bella corsa" e che è rimproverata per il piacere che prova a far la suora dal clima di acidità e rancore conventuale espresso dalla badessa.
Nella scrittura del quotidiano della Donghi non bisogna dimenticare questa politica dei limiti che differenzia decisamente la sua voce dal minimalismo, dal crepuscolarismo, ma anche dalle varie epiche del quotidiano e soprattutto dal racconto bantiano, con cui pure è innegabilmente imparentata; i limiti infrangibili rendono prezioso il mondo domestico di cui consentono il quadro, ma lasciano d'altro lato lo spazio al territorio dell'ipotesi, ancora raccontabile, o al non dicibile, alle zone dell'ombra, che la Donghi non ignora, ma si vieta. La sua cura è per la penombra domestica da abitare a tutto campo nei minimi interstizi, perché la vita, buona o cattiva, non va mai sciupata. È una lezione di decenza quotidiana, senza elegia, e nella sua inattualità, anche per il conservatorismo che manifesta, tutta ancora da ascoltare e da imparare nell'era della volgarità.

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Conosci l'autore

(Genova 1923) scrittrice italiana. È autrice di favole (Le fiabe incatenate, 1967; La gran fiaba intrecciata, 1972; Quell’estate al castello, 1986; Il fantasma del villino, 1992; Alice per le strade, 2000; Quattro tempi per quattro ragazzi, 2005) e di romanzi, in cui la tensione dell’immaginario si mette al servizio dei moduli narrativi (L’uomo fedele, 1965; Le voci incrociate, 1970; Gli sguardi, 1982; La bella fuga, 1992).

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