"Questo libro è nato sulla base del lavoro fatto per realizzare all'Auditorium Parco della Musica di Roma dodici lezioni sull'intera discografia beatlesiana". Poco prima, sempre nell'introduzione, gli autori affermano: "Il viaggio che vi proponiamo è un viaggio mai tentato: rivivere la loro avventura nel dettaglio, minuto per minuto, nota per nota, canzone per canzone, per entrare come mai prima nei complessi meccanismi psicologici e artistici della loro produzione musicale. Questa è a suo modo una dimostrazione che i generi musicali esistono, non solo come raccolte di materiali musicali dotati di qualche affinità, ma soprattutto come sistemi di convenzioni, di 'regole del gioco'". Nessun critico o studioso di musica classica (o di jazz, o di musiche tradizionali) farebbe affermazioni così risolute se non fosse certo che sono inconfutabili, e probabilmente non costruirebbe il suo opus magnum su un ciclo di conferenze divulgative; a dire la verità, nemmeno uno studioso di popular music, ma una di quelle "regole del gioco" confina gli studiosi di popular music nell'accademia, sottintendendo che la comunicazione con il grande pubblico, che si tratti di un ciclo di lezioni o di pubblicazioni a stampa, vada affidata a chi la gestisce giorno per giorno, sui quotidiani, alla radio o alla televisione. Che quello narrato nel volume di Assante e Castaldo sia un "viaggio mai tentato" non è vero. Sul mercato italiano sono apparsi La grande storia dei Beatles di Mark Lewisohn (Giunti, 1996), che faceva seguito a Beatles. Otto anni ad Abbey Road, dello stesso autore (Arcana, 1990, strutturato "minuto per minuto"), e The Beatles. L'opera completa di Ian MacDonald (Mondadori, 1996), traduzione della prima edizione di Revolution in the Head: The Beatles Records and the Sixties (strutturato "canzone per canzone", tuttora in libreria). È vero che i testi di Lewisohn tradotti in italiano oggi sono introvabili, ma allora sarebbe stato meglio essere chiari e dichiarare di voler colmare un vuoto editoriale parziale e temporaneo. Fra i molti saggi disponibili sul mercato internazionale ci sono i due volumi di Walter Everett, The Beatles as Musicians (Oxford University Press, 1999 e 2001), Here, There and Everywhere: My Life Recording the Music of the Beatles, di Geoff Emerick (Gotham Books, 2007) e il primo volume di una serie dell'inesauribile Lewisohn, The Beatles All These Years: Volume One: Tune In (Little, 2013), 960 pagine che arrivano alla vigilia dell'incisione di Love Me Do. Se ci potessimo fermare qui, saremmo di fronte a un cedimento alla vanità, a un'autopromozione forse comprensibile, vista la disattenzione e la disorganicità dell'impegno verso la popular music di gran parte dell'editoria italiana. Purtroppo, questo è solo l'inizio. Il libro di Assante e Castaldo è disseminato di imprecisioni, omissioni, errori davvero ingiustificabili alla luce della bibliografia esistente e della mole di informazioni disponibili in rete, e soprattutto della stima che i due hanno sempre meritato come critici; non poche volte, poi, gli errori invalidano le interpretazioni critiche degli stessi autori. Un conto è lasciarsi scappare un'inesattezza, un conto è sostenere tesi impegnative che sono fondate su informazioni false. Un esempio: occupandosi dell'album Revolver, gli autori commentano più volte il fatto che un assolo di chitarra di Paul McCartney, registrato per la prima canzone dell'album, Taxman, si trovi anche, rovesciato, nell'ultima canzone, Tomorrow Never Knows. E dicono: "Revolver apre e chiude con lo stesso assolo. Ce ne sono state di sorprendenti simmetrie nella storia dei Beatles, ma questa è una delle più sottili, perché lo stesso assolo che al dritto era funzionale a un pezzo rock, spinto, scandito da una chitarra ritmica quasi funky, al rovescio diventa funzionale nel brano più visionario, non solo di Revolver, ma anche di tutta la musica di quel tempo". Un'affermazione di un certo peso, anche perché sottintende che la collocazione delle due canzoni all'inizio e alla fine dell'album sia basata su questa simmetria "sottile", e che quindi Revolver sia già un album governato da un codice nascosto, da un concept. Varrebbe la pena di controllare. Se si inserisce in Google la stringa taxman guitar solo si accede immediatamente a un sito che riferisce di una diceria a proposito dell'assolo rovesciato di Tomorrow Never Knows, dichiarandola fasulla. Ma si può verificare facilmente a orecchio: si carica il file di Tomorrow Never Knows in un editor musicale, lo si rovescia, si ascolta quel frammento, e si trova che sì, c'è qualche analogia nel sound e nel materiale (sia pure con un'intonazione diversa), ma indiscutibilmente l'assolo rovesciato non è quello di Taxman. L'impressione che se ne ricava è che McCartney avesse "nelle dita", in quel periodo, certi licks, e che su quelli costruì entrambi gli assoli. Ma certo un'osservazione come questa, che darebbe il via a discorsi interessanti e concreti sugli stili strumentali dei Beatles, non si presta al tono enfatico al quale spesso Assante e Castaldo si lasciano andare, pieno di "assolutamente", di "straordinario", di "rivoluzionario", di "capolavoro". Ma Revolver non è l'Offerta musicale. Di incidenti come questi ce ne sono numerosi. Un altro esempio. Non è necessario possedere l'Anthology su Dvd, basta navigare su YouTube per vedere varie versioni delle riprese del concerto dei Beatles a Washington. Quello a proposito del quale nel libro si legge che i Beatles "suonarono su un palco girevole per permettere a tutti di vedere e sentire". Ma in quei filmati si vede benissimo che i Beatles suonano su un palco fisso, che solo la batteria è montata su una piccola e precaria piattaforma girevole, che spesso si incastra lasciando Ringo desolato e perplesso, mentre gli altri Beatles spostano i microfoni avanti e indietro, non per permettere a tutti di vedere e sentire, ma per rivolgersi alternatamente a due ali opposte del pubblico (era un palazzetto per il basket). Una dimostrazione notissima di quanto l'organizzazione dei primi concerti di massa dei Beatles fosse rudimentale: tutto il contrario di ciò che la frase lascia intendere. E poi, i Beatles che "facevano un uso della stereofonia decisamente sorprendente" (in Sgt. Pepper's, che fu mixato in stereo dai tecnici, in assenza dei Beatles); In C di Terry Riley, che sarebbe "un intero concerto solo su una nota" (la partitura si può scaricare da Internet, chiunque può vedere che non è fatta con una sola nota, e non è nemmeno "in do"), e così via. Un discorso a parte meriterebbero le citazioni errate o le interpretazioni equivoche dei testi, davvero incredibili, da In My Life che "parla di Liverpool, è evidente" (dove?), a Let me take you down where I'm going to in Strawberry Fields Forever (ma Lennon dice cause I'm going to), al suggerimento che Lennon in How Do You Sleep dica a McCartney: "Tu sei quello di 'Yesterday'"; "come dire: 'ricordati quello che eri'", versione edulcorata di uno dei versi più feroci che siano mai stati messi in una canzone: The only thing you done was yesterday / And since you're gone you're just another day. L'elenco sarebbe lungo, ma credo che quanto riportato sia sufficiente a disegnare l'immagine di un libro inutile. Peccato. Franco Fabbri
Leggi di più
Leggi di meno