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Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi - Marina Caffiero - copertina
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Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi - Marina Caffiero - copertina

Descrizione


Ebrei battezzati clandestinamente in tenera età, ebrei denunciati con il pretesto che avessero espresso la volontà di convertirsi, ebrei "offerti" alla religione cristiana: quello dei battesimi forzati fra XVI e XIX secolo fu un fenomeno sociale e culturale di grande rilievo che si colloca all'origine di numerosi pregiudizi antisemiti. L'analisi di questo tema contribuisce a comprendere le radici storiche dell'antisemitismo politico otto-novecentesco e solleva questioni cruciali per la storia della società europea, quali quelle relative ai problemi politici e ideologici innescati dalla convivenza tra religioni diverse o al ruolo svolto dalle autorità e dai tribunali ecclesiastici.
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Dettagli

2004
1 settembre 2004
352 p., ill. , Brossura
9788883341366

Voce della critica

Forse solo Philip Roth, all'interno del robusto filone letterario che nel corso del Novecento ha cercato di descrivere il mondo, la sensibilità e l'anima ebraici, ha insistito sull'elemento della paura. Una paura che corre sottotraccia, fatta di reazioni istintive e frutto di un imprinting atavico: una paura che non è solo memoria recente della tragedia della Shoah, ma è memoria lunga, di un passato che, quando non si cristallizzava in forme apertamente minacciose, risultava quanto meno ostile e prevaricatore. Per secoli, le radici di questo sentimento hanno tratto linfa vitale dalla humus della cultura cristiana, nella quale, epidemicamente, trovavano risonanza calunnie quali l'omicidio rituale, la profanazione delle ostie, l'avvelenamento dei pozzi. Catalizzatrici di ansie collettive e valvole di sfogo sapientemente costruite, queste accuse avevano se non altro il "vantaggio" di ricorrere - appunto - episodicamente, sfociando in acmi di violenza cui seguivano lunghe fasi di congelamento dell'odio. Sulle comunità ebraiche del passato pendeva però un'altra minaccia, se possibile ancor più devastante a causa del suo carattere endemico e ansiogeno: le conversioni coatte. Che non significavano solo costrizione ad abbracciare una fede diversa, ma sradicamento totale dall'ambiente naturale, recisione definitiva dei legami affettivi, perdita di quel patrimonio di risorse solidaristiche senza il quale l'esistenza stessa dell'individuo diviene un azzardo perenne. E, dunque, fonte di paura perenne, oltre che di diffidenza nei confronti dell'altro.
Oggetto nell'ultimo ventennio di un crescente interesse da parte degli storici, il tema delle conversioni forzate degli ebrei sta al centro di un bel libro di Marina Caffiero, che ne ricostruisce le vicende in un teatro, quello della Roma dei papi, particolarmente importante: tanto per le dimensioni della locale comunità ebraica, quanto per le ovvie valenze simboliche e dottrinarie delle decisioni che venivano assunte nel corso delle contese. Siamo nel Settecento, in un momento estremamente delicato della storia capitolina, e più precisamente fra gli anni immediatamente precedenti e quelli successivi al pontificato di Benedetto XIV. Una lunga tradizione storiografica ha costruito intorno a questo pontefice un'aura di sacralità: un papa aperto, illuminato, di quei pochi che sarebbero riusciti a imprimere una svolta decisiva alla politica della corte di Roma. Senza nulla togliere ai suoi tentativi di rinnovamento ideologico e di svecchiamento dottrinale, Caffiero ci dimostra che Benedetto XIV fu uomo della svolta anche nei rapporti del papato con i fratelli maggiori: una svolta involutiva però, che ne offusca certamente l'immagine eccessivamente agiografica che ci è stata consegnata.
Fra 1747 e 1751, Benedetto XIV promulgò due lettere con l'intento di offrire una sistemazione giurisprudenziale a una materia che dava puntualmente luogo ad aspre contese e liti interminabili fra gli ebrei da una parte e l'ospizio dei catecumeni dall'altra, la principale istituzione cattolica dedicata al proselitismo interno. Le lettere, che prendevano spunto da casi specifici dibattuti in quegli anni, non introducevano novità rilevanti sotto il profilo giuridico: non a caso, rispecchiavano la fondamentale alternanza di paternalismo e repressione che era stata per secoli la cifra dell'atteggiamento del papato nei confronti degli ebrei. Esse tuttavia operavano uno scivolamento che si sarebbe rivelato, fin da subito, quanto mai pericoloso per i diritti religiosi della minoranza ebraica: giustificavano cioè la conversione, comunque fosse avvenuta, indipendentemente da ogni ragionevole dubbio, e al di là di ogni garanzia giuridica, in base al principio indiscutibile del favor fidei . In altri termini, ci fosse o no il consenso dei genitori al battesimo dei loro figli, o il consenso individuale al proprio battesimo, deciso e disposto da altri, poco importava. Per quanto intricata potesse essere la casistica, e lo era molto, alla fine faceva premio una sola considerazione, un solo principio: il vantaggio che sarebbe derivato alla fede cristiana dalla conquista di un'anima in più.
Marina Caffiero ci guida con mano sicura in una vera e propria galleria degli orrori animata da decine di casi strazianti. Nonni paterni che "offrono" alla chiesa i loro nipotini, fregiandosi di diritti di patria potestas che sembravano non aver mai fine, neppure dopo l'eventuale emancipazione dei figli. Nonne che si arrogano gli stessi privilegi nei confronti di nuore rimaste precocemente vedove. E poi, ancora, fidanzati respinti che cercano di impalmare chi li aveva rifiutati, denunciandone il desiderio espresso, e quanto mai improbabile, di abbandonare la fede ebraica; madri che si vedono spogliare dei propri figli, quando non di quelli che hanno ancora in grembo, da mariti che hanno appena varcato le mura del ghetto; e così via, in un crescendo di sprezzo, da parte delle autorità ecclesiastiche, della umana pietas e di totale mancanza di rispetto per i sentimenti primordiali dell'individuo. Proprio all'indomani delle lettere di Benedetto XIV, questa furia conversionista trovò modo di forzare tutti i punti deboli e gli interstizi lasciati aperti da una giurisprudenza intenzionalmente vaga: l'appello a un'istanza superiore di fede, quella del favor fidei , consentiva infatti di far bellamente strame di quei pochi principi che avevano sin allora regolato la materia. A cominciare dalla proibizione del battesimo dei fanciulli invitis parentibus , cioè contro la volontà dei genitori, che per secoli ne aveva rappresentato il cardine ispiratore. In nome del vantaggio dogmatico della fede, la normativa divenne materia elastica, e non garantì più nulla.
Troviamo così bambini di tre anni che vengono fatti passare per cinquenni, e quindi giudicati quasi in età da ragione - che pure era una nozione vaga e cangiante, ma che comunque veniva in genere collocata nella fase puberale. Giovani donne che, dopo essere state rinchiuse a forza nella Casa dei catecumeni per essere sottoposte alla quarantena di rito atta a vagliarne la disposizione alla conversione, vengono trattenute ben oltre col pretesto che il loro scrutinio doveva sì durare quaranta giorni, ma solo a partire dal momento in cui avessero smesso di tapparsi le orecchie e si fossero mostrate ben disposte a lasciarsi imbonire. Madri, nella stessa condizione, che vi vengono segregate perché incinte - e Dio non volesse mai che andassero a partorire in ghetto: la chiesa avrebbe rischiato di perdere un'anima preziosa per il suo gregge, perché, si sapeva, gli ebrei preferiscono uccidere i loro figli pur di non consegnarli alla verità di Cristo. Insomma, un aggiramento sempre più sfacciato della per altro poco rigorosa legislazione in materia di conversione. E con risultati talvolta paradossali.
Ne fa fede la posizione assunta in merito alla personalità giuridica del feto. In netto, e precoce, contrasto con la visione tomistica, che rimandava al momento della nascita l'acquisizione dei diritti individuali, fin dai primi decenni del Settecento i teologi vicini alla Casa dei catecumeni tesero sempre più ad avanzare la tesi secondo la quale la madre fungeva da mero ricettacolo del nascituro: il feto pertanto avrebbe goduto già di margini di autonomia tali da legittimarne il futuro battesimo in caso di "offerta" da parte degli agnati e indipendentemente dal volere della madre. In realtà, l'idea della madre come puro ricettacolo del seme riprendeva la vecchia, tradizionale posizione che il pensiero medicale europeo aveva mantenuto fino al 1672, anno in cui l'olandese Régnier de Graaf, formulando la teoria dell'ovismo, aveva conferito al corpo e alle funzioni riproduttive della donna una dignità e una rilevanza nuove. Non c'è dubbio però che, nel contempo, la sottolineatura dell'individuazione precoce del feto rispetto alla madre apriva una prospettiva audace nei campo dei diritti del nascituro, quasi un'anticipazione del paradigma discorsivo dell'attuale bioetica.
Il libro coglie acutamente tutte le implicazioni generali delle aspre discussioni intorno alle conversioni forzate e lo fa grazie all'attenta ricostruzione del piano giudiziario al quale, prima o poi, la maggior parte dei battesimi coatti finiva con l'approdare. Le tre parti coinvolte - la comunità ebraica contro la Casa dei catecumeni e, a giudicare, la corte vicariale o quella inquisitoriale - ne emergono come attori perfettamente consci dell'alto livello simbolico della posta in gioco. Quanto ad abilità dialettica, sottigliezza giurisprudenziale, disinvoltura nel muoversi fra gli interstizi lasciati liberi dai diversi apparati normativi e dei vari tribunali e, non ultimo, spessore di cultura giuridica, spicca senza dubbio la comunità ebraica, aiutata, nel caso, da valenti avvocati del foro capitolino. Lontani dal confarsi all'immagine stereotipa di gruppo remissivo e uso a obbedire in silenzio, i suoi esponenti mostrano una volontà battagliera e ostinata, ribattendo colpo su colpo alle spesso speciose argomentazioni dell'avversario, talvolta tirando perfino fuori le unghie e non esitando a denunciare il regime di soprusi palesi perpetrato a loro danno. I professionisti della conversione a tutti i costi fanno il loro mestiere, senza alcuna considerazione del rispetto umano e in spregio di qualsiasi virtù teologale che pur avrebbe dovuto guidare i loro comportamenti.
I collegi giudicanti, i consultori e i teologi appaiono invece come un insieme di compattezza meno granitica: non di rado infatti tradiscono un minor convincimento nella bontà del battesimo degli "infedeli" a tutti i costi. Anche dopo la pubblicazione delle due lettere papali che avevano cancellato le residue garanzie degli ebrei in nome del favor fidei , le decisioni non vennero che raramente prese all'unanimità. Più di una volta, infatti, vediamo un giudice o una minoranza di consultori esprimere coraggiosamente una posizione dissenziente: segno che, oltre a un residuo di pietà per le vittime, i dubbi sulla liceità di quelle pratiche conversionistiche allignavano nel seno stesso della chiesa, insieme alla consapevolezza dell'esistenza di limiti giuridici alla loro perpetrazione. La vaghezza del quadro normativo di riferimento ne rendeva l'aggiramento certamente più agevole: non fu però questa indeterminatezza a favorire la perdita coatta dell'identità religiosa di molti ebrei. In generale fu la condizione di inferiorità giuridica, nella quale la popolazione dei ghetti era costretta a vivere, a vanificare qualsiasi straccio di garanzia a favore dei suoi membri. Offendo in ogni momento la possibilità di appellarsi a un principio dogmatico qualsiasi, fosse il tautologico favor fidei o qualunque altro, l'enorme asimmetria di poteri che caratterizzava i rapporti fra gli ebrei e la società più ampia introdusse nella partita quel dado truccato che ne avrebbe in ogni caso falsato l'esito. Al punto che, soprattutto dalla seconda metà del Settecento, il sopruso della coartazione diventò pratica, aggiungendosi alla prevedibile devastazione psicologica alla quale i catecumeni sottratti alla loro famiglia, specialmente se di sesso femminile, venivano sottoposti durante il periodo di internamento che precedeva l'abiura e il battesimo.
Alcuni lati della vicenda raccontata da Marina Caffiero rimangono però tuttora oscuri. A partire da quelli che attengono al versante "sociale" della conversione. L'uso, a quanto pare piuttosto frequente, di "consegnare" figli, nipoti, fidanzate e mogli nella braccia della chiesa era una particolarità romana: in altre situazioni infatti, dove esso non è attestato per nulla, o fa registrare una bassa incidenza sul totale delle conversioni, la pratica dei battesimi coatti era prevalentemente esercitata da individui esterni al ghetto, particolarmente zelanti o prezzolati. Ciò significa che la "consegna" costituiva, nel caso romano, una formidabile arma di ricatto, vendetta, tentativo di composizione dei conflitti familiari e interindividuali, così come, in tutt'altri contesti, l'accusa di stregoneria veniva lanciata per alterare l'equilibrio comunitario o riportarlo allo statu quo. In altri termini, gli ebrei della capitale non avevano saputo ricondurre nel tempo il livello di conflittualità del ghetto entro canali collettivi di composizione delle tensioni: col risultato che l'alto numero di conversioni, volontarie e coatte, contribuì non poco a depauperare la ricchezza demografica, sociale ed economica della comunità romana, notoriamente una delle più povere d'Italia ancora alla vigilia del 1870.
Le dinamiche sociali e parentali che s'intravedono dietro le spie più eclatanti del malessere, cioè le conversioni forzate, costituiscono il lato oscuro della vicenda che occorrerebbe riportare alla luce: perché esse, a loro volta, rischiarerebbero i coni d'ombra, le aree di ambiguità e di corresponsabilità senza le quali gli interventi violenti del potere papalino non sarebbero stati neppure concepibili. La stessa periodizzazione necessiterebbe di un ulteriore approfondimento. Caffiero ricostruisce in modo estremamente convincente l'alternanza delle fasi che vede come spartiacque il pontificato di Benedetto XIV. Ma il registro dell'antisemitismo, come quelli del razzismo o dell'etnocentrismo, costituisce una risorsa alla quale certi gruppi fanno ricorso in particolari momenti, secondo i "bisogni" della congiuntura. Perché, ovvero a quali fini, e seguendo quali interessi a breve o medio termine, la curia romana abbia deciso, proprio allora, di instaurare un'"atmosfera" nuova, più autoritaria e meno tollerante nei rapporti con la minoranza ebraica, resta un aspetto ancora tutto da scandagliare. Diversamente si rischia di offrire materia alle disinvolte attualizzazioni che, prendendo spunto, tra gli altri, dai battesimi degli ebrei romani fra Sette e Ottocento, hanno recentemente alimentato sulle pagine di alcuni quotidiani una polemica tanto speciosa quanto generica. Se c'è un filo rosso che lega le vicende raccontate da Marina Caffiero al presente, questo lo si può più facilmente trovare nella volontà di chi, oggi come ieri, ritiene giusto e doveroso imporre agli altri, magari a forza, la sua visione del bene.

Luciano Allegra

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Marina Caffiero

è professore onorario di Storia moderna alla Sapienza Università di Roma. Le sue ricerche riguardano la storia sociale e culturale dell’Europa moderna, con particolare attenzione alle problematiche religiose e alle minoranze. Tra le sue pubblicazioni: Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria (Torino 2012); Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione (Roma 2014); Il grande mediatore. Tranquillo Vita Corcos, un rabbino nella Roma dei papi (Roma 2019). Per i tipi delle Edizioni di Storia e Letteratura dirige la serie “Religioni frontiere contaminazioni”.

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