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recensioni di Pozzi, R. L'Indice del 2000, n. 01
È al secolo XIX nella sua complessità, a quel secolo "nel quale il nostro presente, per lontano che sia, affonda comunque le sue radici", che c'invita a guardare, in apertura del suo lavoro, Mirella Larizza. E non v'è dubbio che delle immagini che quell'età ci rimanda due ci vengano subito alla mente come, a prima vista, particolarmente dissonanti: da un lato, così frequente da apparirci quasi la cifra dell'epoca, la celebrazione razionalistica della scienza; dall'altro, una prepotente religiosità, che ha trovato spesso sfogo in nuove fedi e in nuovi culti.
I "profeti di Parigi", secondo il lignaggio ricostruito da Frank E. Manuel, e in particolare Saint-
Simon e Comte, col seguito delle loro scuole, sono stati infatti protagonisti di un percorso che dalla teorizzazione dei compiti di direzione sociale della Scienza è sboccato nell'istituzione di una religione. A essere indagata nel libro di Larizza è proprio la svolta sentimental-religiosa che, sulla fine degli anni quaranta, ha condotto Comte dal progetto scientifico del Cours de philosophie positive a fondare una religione dell'Umanità, e, in un complesso rapporto con questa scelta, a dislocarsi politicamente, passando dal fronte repubblicano, in cui egli si situava seppur con delle peculiarità, a quello della reazione.
Sulle ragioni di questa svolta s'è sviluppata, dai contemporanei fino ai nostri giorni, una vastissima letteratura. Oggi, accantonata la diatriba sulla continuità o discontinuità, su cui i positivisti "ortodossi" s'eran scontrati con Littré e John Stuart Mill, è piuttosto - come l'autrice osserva - a "dilatare i tempi della gestazione del 'positivismo religioso'" che tendono gli studiosi: sia che il nucleo ne venga indicato nella logica, sempre presente in Comte, di una missione epocale da compiere (Gouhier), sia che si sottolinei la costante preoccupazione etica della sua opera (Arbousse-Bastide, Berrêdo-Carneiro).
Va però anche ricordato che, su questo sfondo, forte serpeggia pure fra i critici la tentazione di riportare le ragioni di quello che appare comunque come un revirement alle fragilità caratteriali di Comte, e soprattutto alla tempesta emotiva in lui scatenata dalla passione, presto trasformata dalla morte della donna in culto, per Clotilde de Vaux. Quella dell'enfasi sulle bizzarrie, quando non sulle patologie della personalità, è del resto una cifra interpretativa che si ritrova spesso applicata ai pensatori utopisti.
Senza trascurare nessuna di queste piste, la via che Larizza ci propone di seguire è un'altra. Il quadro cronologico da lei scelto - 1848-52, dalla nascita alla morte della seconda Repubblica francese - non è casuale: non v'è dubbio che voglia essere un richiamo alla storia e ai condizionamenti che essa impone; anche a chi, come Comte, intendeva dirigerne il corso, ma, per ciò fare, era costretto ad adattare i suoi strumenti alle esigenze del "qui" e dell'"ora". La storia con cui s'è dovuto confrontare il fondatore del positivismo è quella, febbrile, delle agitazioni del momento, ma gonfia anche delle tensioni di tutto il secolo, degli anni che vanno dalla rivoluzione del febbraio 1848 all'epilogo del 2 dicembre; e il suo teatro è Parigi, la "capitale del XIX secolo". È sotto l'impulso dell'entusiasmo per l'avvento della repubblica che Comte - già da tempo postosi il problema dell'applicazione al campo sociale della "vera filosofia" da lui fondata - è approdato alla politica, fondando nel marzo 1848 la Société positiviste. Ed è perché le esigenze della propaganda si sono fatte prevalenti, e urgente è diventato l'obiettivo di raggiungere quelle masse illetterate in cui il filosofo individua ormai i suoi interlocutori, che egli riconverte il suo sistema e, dopo aver privilegiato il metodo scientifico quale strumento dell'intervento sociale, riscopre ora, nella sua immensa forza, "il linguaggio del cuore". L'esito religioso, la creazione di rituali e di simboli altro non appaiono allora che la conseguenza, inevitabile data la struttura totalizzante del sistema comtiano, di tale riconversione di campo. Altrettanto inevitabile la parabola politica, che si sovrappone a quella stessa della repubblica: del binomio di "ordine e progresso", in cui si riassumeva la formula sociale del positivismo, le drammatiche vicende di quegli anni hanno spinto Comte a privilegiare sempre più il primo termine, portando allo scoperto gli elementi illiberali e antidemocratici da sempre presenti nella sua concezione.
L'appassionante lettura che Larizza ci propone di questa vicenda ha ai miei occhi un duplice pregio. Da una parte, con un lavoro di scavo archivistico nuovo e vastissimo, essa ricostruisce la vita concreta della Société positiviste, le biografie dei suoi membri, i loro rapporti col maestro, che non furono solo di sudditanza, ma spesso di scambio intellettuale, fino alla crisi finale e alla rottura con Littré. A partire da questa conoscenza ravvicinata dello sparuto manipolo iniziale, degli uomini così diversi per idee e carattere che l'animarono, non v'è dubbio che esca illuminata la successiva vicenda del positivismo e della sua disseminazione, descritta da Walter E. Simon, nell'Europa della seconda metà dell'Ottocento. Dall'altra parte Comte viene sottratto alle sue eccentricità e restituito alla storia del tempo. Risulta da questa ricerca come egli, in anni cruciali per l'instaurazione della modernità politica, abbia condiviso con altri (si pensi a Michelet, a Quinet, a Renan) il problema, fondamentale per la democrazia, di trovare un linguaggio accessibile alle masse: anzi come abbia forse compreso meglio di altri che il messaggio della politica passa attraverso dei codici e delle tecniche di cui è essenziale impadronirsi, se si vuol incidere sul reale. Che poi ciò significasse ai suoi occhi far appello ai sentimenti e alle emozioni, piuttosto che alla logica della ragione, e che vi fosse in quest'intuizione una buona dose di volontà manipolatoria, non è problema storico di poco conto.
L'intera problematica di Comte risulta in realtà, da questa ricerca. La soluzione da lui prospettata di un "mondo fanaticamente ordinato di esseri umani gioiosamente impegnati ad assolvere le proprie funzioni" (Isaiah Berlin), di singoli annullati in una collettività rigidamente gerarchizzata, certo ci evoca fantasmi angosciosi. Tuttavia, nella ricerca di un legame che saldi in comunanza di valori l'atomizzata società degli individui, egli si è applicato a un problema che ha sommamente preoccupato gli uomini venuti dopo il 1789. Ciò che soprattutto risulta interessante del suo progetto politico è non tanto l'esito reazionario (che, come altri progetti analoghi, porta in sé dall'inizio) quanto la singolare mistura di cui si compone. Giacobinismo e autoritarismo ultramontano, solidarismo di matrice cattolica e scientismo: se è vero che la cultura francese dell'Ottocento è stata un laboratorio del pensiero totalitario (Talmon e Furet, Sternhell e Battini), non v'è ora dubbio che di tale vicenda Comte sia stato uno dei protagonisti.
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