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Trovato in soffitta e letto di getto. Un Simenon in stato di grazia, una storia bella, avvincente, ambientata a Liegi, la città dell'autore. Personaggi spesso squallidi, interpreti di un buon romanzo giallo, dove alla fine prevale un senso di amarezza, nonostante la risoluzione del caso. Per gli amanti di Maigret.
Dopo la lettura appassionante di molte inchieste degli anni successivi, anche i primi Maigret degli anni Trenta conservano il loro fascino (anzi, per alcuni sono i migliori rispetto alla produzione seguente). Tra i 19 titoli del periodo delle edizioni Fayard "La ballerina del Gai-Moulin" presenta un buon intreccio poliziesco e un Maigret già abbastanza caratterizzato nel suo personaggio futuro.
Trovo che questo Miagret sia particolarmente bello perché per una volta l'indagine non è vista attraverso gli occhi e le sensazioni del commissario,bensì dalla prospettiva del giovane Jean un tuttofare di uno studio notarile di Liegi che insieme all'amico Renè decide di rubare l'incasso di uno squallido locale,il Gai Moulin appunto.La scoperta del cadavere del ricco rampollo di una famiglia greca manderà a monte i piani.Inizierà per il povero Jean un incubo,essendo accusato dell'omicidio,da cui lo salverà un misterioso signore alto e grosso con i baffi e la pipa che entrerà nell'indagine per stanare il vero assassino e svelare la vera identità dei personaggi coinvolti.Senza dubbio è una delle indagini del commissario che mi hanno coinvolta maggiormente per la capacità di Simenon di capovolgere in modo verosimile la storia svelando con crudezza e cinismo la realtà dei fatti.Meritano particolare attenzione i personaggi di Adele per la sua imperturbabilità nel terremoto di eventi che la coinvolgerà e di Renè per la mancanza di scrupoli ed il cinismo che dimostra nell'inseguire ciò che desidera sacrificando tutto e tutti.
Recensioni
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SIMENON, GEORGES, La ballerina del Gai-Moulin
SIMENON, GEORGES, Il defunto signor Gallet
recensione di Baricco, A., L'Indice 1994, n. 9
Fa un po' effetto ritrovarsi Maigret in confezione Adelphi; con tutto il processo di santificazione che questo si porta dietro. Sicuramente lui non avrebbe gradito: e avrebbe preferito rimanere per sempre incolonnato nelle cartolibrerie vestito da Oscar Mondadori vecchia maniera, grafica bonaria e quarte di copertina approssimative. Era uno da brasserie, non da ristorantini.
Era uno vecchia maniera, e c'è da credere che lo fosse già a undici anni. Un bambino già nostalgico dei vecchi tempi. Chi ama Maigret ama soprattutto quel borbottìo costante contro il mondo che fila via veloce. Sentimento che, nella testa del commissario, aveva un corollario non insignificante: una compassione istintiva per quelli che, non reggendo la velocità, scendono dal treno: da vittime o da assassini, è uguale, sono solo due modi diversi di scendere.
Sullo sfondo, come si dice, la Francia. E lì ci sapeva fare, Simenon, perché quando descrive un bar di periferia dice tre cose ma quel bar tu lo vedi tutto, e non solo, hai l'impressione di averlo già visto, di esserci stato, servivano il Pernod nei bicchieri con su scritto Evian. Anche il barista, giureresti di averlo conosciuto. Tutto falso, ovviamente, essendo quella una Francia ormai sparita da tempo, eppure quella sorta di 'trompe l'oeil' è inevitabile. Come è inevitabile collocare quelle storie in una vaga pre-contemporaneità che sa di anni cinquanta ma è prima della guerra, dove passano gigantesche DS ma non ci sono i semafori, provate a dire esattamente gli anni: non lo sapete. I due libri qui citati, per dire, sono del 1931: quanti li leggeranno pensando alla Francia che hanno visto vent'anni fa? Quando un mondo diventa mito, il dove e il quando diventano categorie mobili. È un mito, a modo suo, il buon Maigret.
Che forse non sarebbe così famoso se Simenon non avesse avuto, oltre a un certo talento nell'allestire intrecci polizieschi, una penna che si muoveva con una naturalezza assoluta, e una leggerezza istruttiva. A fargli l'editing, non avresti trovato un aggettivo di troppo. Non forzava quasi mai nemmeno quando l'intreccio si infittiva, quando si scopriva il cadavere, quando l'assassino crollava e confessava. Si piazzava su una certa velocità e più o meno lì restava, con rari surplaces e rarissime accelerazioni. Questo dà ai suoi testi (anche quelli non legati alla figura di Maigret), una sorta di poesia sotterranea, una calma da preghiera profana, una calda mezza luce da lampadina 40 candele. Va, la storia, con un passo da deserto immutabile e da sempre già stabilito: se accade qualcosa, ha sempre il sapore dell'evento annunciato. La vita, come la raccontava Simenon, era un dettato, non un componimento a tema libero. E il delitto non era mai una variabile impazzita e imprevista del sistema, ma la coerente tessera di un puzzle complessivo: un gesto obbligato.
Per questo Maigret non punta mai dritto al colpevole, ma preferisce vagabondare per il mondo che ha ospitato il delitto. Sa che le vie di quel mondo disegnano un teorema di cui il colpevole è la soluzione. Tracanna birre, manda telegrammi; telefona dai telefoni pubblici, piglia taxi, salta pranzi; dorme poco, fuma nei momenti più assurdi. Non ha lo humour di Marlowe, n‚ lo stile di Poirot, n‚ il cervello di Sherlock Holmes. Ma ha qualcosa che loro si sognavano: una moglie che gli tiene la roba in caldo. Alla fine, com'è giusto, vince sempre: ma con quell'aria stanca di chi, sotto sotto, pensa che hanno perso tutti. Lui compreso.
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