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In un libro-bolla soffiato dal genio, Fernando Acitelli coglie un dato di cultura, il celebre dipinto di Jan Van Eyck I coniugi Arnolfini (1434), e lo "trascina" in natura, facendone una costellazione, la sua costellazione-addentellato di consolazione e tutela che un io smarrito si trova nell'universo. Animata di una sua stellare vita intima ("Li ho visti baciarsi! / La notte: il 18 dicembre 1986"),la coppia scorre sulle nostre teste, surreale e poetica ossessione - come il Babuino per Elio Filippo Accrocca (Lo sdraiato di pietra, Newton Compton, 1994). Compagni e muti testimoni di una solitudine, di un dolore giorno per giorno rinnovato, gli Arnolfini sono un punto di osservazione, il "pregio di una prospettiva". Dislocati in alto, giustificano come regesto di una loro secolare ispezione l'incongruo, eteroclito caleidoscopio della storia e dell'attualità. E qui s'innesta alla loro perlustrazione il "gusto d'Antico" che è proprio di Acitelli fin dalle prime prove e perfino allorché scrive di calcio (penso a Falcao o Dino Baggio nel precedente La solitudine dell'ala destra. Storia poetica del calcio mondiale, Einaudi, 1998). Perché Acitelli è un antico Romano sbalzato per caso o per errore nella nostra esistenza attuale - in cui si trova particolarmente a disagio, con la ristretta eccezione dei giochi del circo, odiernamente lo stadio, di cui è infatti epico cronista. E alle ore piccole, quando non sia "di posticipo" - o forse dopo il suo termine - torna nostalgicamente proprio nel grande alveo del Circo Massimo e dalle sue deserte pendici si ferma a ascoltare fra gli astri gli "Arnolfini, limpidi, / metallici di voce questa notte". Spiazzato nei nostri aspri giorni, l'atavico orgoglio ha subìto l'incrinatura delle melanconie, del saturnino, dello spessore ansioso della solitudine. È quando ama che Acitelli risale i secoli verso la "sua" condizione. Per questo la sua poesia si fa più salda, franca, umorale e ardita nel dipingere l'eros. Per questo le sue avventure lo effigiano in panni di "giovane Clodio", o di contemporaneo di imperatori folli (se non Caligola lui medesimo). Come risulta proprio a un antico Romano, Acitelli ama circondarsi, e quasi caricarsi di Storia (di tutti i tempi). Ma soprattutto si dipinge d'attorno augusti paesaggi classici - siano stati o meno diroccati dal tempo: le strade consolari, il Circo Massimo, i mitrei, il Palatino, il Foro. Questo il suo habitat, che egli non dismette mai nemmeno se ne è lontano, chiamato alle aggiornate conquiste di straniere e barbare, nelle loro terre alla periferia dell'Impero. L'antichità sa poi ibridarsi con banchieri, assegni, idromassaggi. E s'infiltra nelle glorie e conquiste del Romano ferito un'altra curiosa, eccentrica componente della mescolanza, che figura da sempre sulla sua tavolozza: la nota cristiana, l'assetto di orante assunto nelle più profane esplorazioni dell'eros, l'incenso, il buio umido, il coefficiente settecentesco e il timbro gesuitico proprio alle chiese di Roma e a un loro rosso e fiammeggiante barocco. Nei Pregî della prospettiva (Amadeus, 1996) era tratto più in vista, ma anche sotto il cielo arnolfino le chiese si sgranano in particolari indimenticabili, fino a stemperarsi in "mondo antico" quando un'acquasantiera si fa circo per le bighe-mani degli amanti visitatori. E, come sfera interna a quella celeste governata dai coniugi, ruota il globo tematico più intimamente personale. Così gli schemi calcistici possono combinarsi, in esiti fra lavagna da Mister e poesia visuale, con le colonne del puritanesimo. Così, a custode degli inferi terreni, può segnalarsi la figura del padre, scomparso dopo un calvario ospedaliero: un uomo semplice, il cui onesto, passionale legato è divenuto irrinunciabile timbro di tutta l'esistenza poetica di questa voce. Dopo questo libro, il cosmo non sarà più il medesimo: ineluttabilmente farà vela nel firmamento (quello della mente del lettore), ineliminabile ormai, la nuova costellazione degli Arnolfini.
Alessandro Fo
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