Aziyadé, primo tra i romanzi di Pierre Loti per cronologia (1879) e forse per valore, è la storia d'amore fra un tenente della marina inglese e una giovane circassa, consorte-schiava di un dignitario turco. La vicenda nasce a Salonicco, si sviluppa nei dedali di una Stambul conosciuta dall'autore palmo a palmo (l'esotismo è compiaciuto ma di prima mano) e si conclude poi tragicamente: la scoperta dell'adulterio sarà fatale ad Aziyadé, e l'ufficiale sceglierà la morte difendendo la Turchia nella guerra contro la Russia. L'opera uscì anonima e più che un romanzo voleva essere una ricostruzione postuma di diari e lettere dello sventurato protagonista (il vecchio espediente del Werther, le carte pietosamente raccolte da un amico). Il neo-scrittore Julien Viaud non adotta ancora lo pseudonimo di Pierre Loti (lo farà a partire dal suo terzo romanzo), ma l'ufficiale certamente autobiografico, anche se "britannizzato", di Aziyadé anticipa il suo stesso autore e si chiama con il soprannome tahitiano Loti: gioco di specchi in cui è palese la vocazione al depistaggio. La Turchia è per Loti il luogo per realizzare una sospirata "vita di piaceri", tendenzialmente trasgressivi, che è tutt'uno con i suoi amati paludamenti (l'adozione sia del vestiario orientale che della lingua locale e persino dell'onomastica: Viaud-Loti si trasforma ancora in Arif). La vecchia Europa è abbandonata per un Oriente arcaicizzante e quasi mitico; il Loti di Aziyadé rinnega la morale cristiana ("Non conosco nulla di altrettanto, vano, menzognero inammissibile"); irride quali "facezie" tutte le cose "serie" e soprattutto la politica (giudica peraltro una rovina per la Turchia la nuova Costituzione liberaleggiante concessa dal sultano); e in un'unica avversione mette insieme "l'orrore di ogni scienza" e l'odio per "tutti i doveri convenzionali, tutti gli obblighi sociali dei nostri paesi occidentali". Per "riempire il vuoto spaventoso" della vita" ecco appunto i piaceri: non solo la sottomessa Aziyadé, icona sublimatrice, ma, in filigrana, la "spenta dissolutezza" che lo trattiene per le strade fino al mattino e che ha già il suo vero nome nella descrizione di Salonicco ("I suoi minareti parevano un mucchio di vecchie candele, posate su una città sporca e nera dove fioriscono i vizi di Sodoma"). Come spiegarsi che a un tale immoraliste non si volse mai la vigile censura borghese (la stessa che andò perseguitando prima Baudelaire e Flaubert, poi Zola) ma anzi a lui si aprissero le porte delle biblioteche di famiglia e dell'Académie Française? A parte vecchie indulgenze per la tipologia del "giramondo", c'è una risposta d'ordine stilistico. La scrittura lotiana è infatti maestra assoluta di leggerezza e ambiguità: sia che accenni alla "grande douceur" del fedele Samuel o agli inequivocabili ritrovi con adolescenti turchi, l'arte è quella della sospensione, della dissolvenza, della soglia perenne; se anche si spinge a un inciso ammiccante ("Dans le vieil Orient tout est possible!") è sempre con immancabile vaghezza (sarà per questa impalpabilità semantica che Mallarmé definiva Loti "exquis"?). Nel suo discorso di recezione tra gli Immortels, Loti, in polemica con le sirene del naturalismo e del romanzo psicologico, aveva rivendicato la vocazione per opere "in cui non succede nulla" (e difatti: dove sono in Aziyadé i vari escamotages clandestini che sempre si legano agli harem?). Ed è in questo nulla, in questa stasi compiaciuta e paga di sé (fatta, come osserverà Roland Barthes, di continue osservazioni meteorologiche o descrizioni di abiti) che anche le asserzioni anti-sociali e ateologiche, quasi nietzschiane e probabilmente forti in altri contesti, si stemperano in superfici sintattiche senza spessori, puntilliste ante litteram: i numerosissimi lettori d'ogni rango sociale non vi ravvisarono mai nulla di maudit. Aver svecchiato i fondali esotici con un moderno prevalere del significante (che "non è mai fuori moda", lo ricorda ancora Barthes) è merito tardivamente riscoperto negli ultimi decenni (basti guardare alla nuova proliferazione di titoli lotiani in Francia). Il citato saggio di Barthes fu scritto per la bella edizione di Aziyadé pubblicata da Ricci nel 1971. La nuova accurata traduzione del romanzo per l'editore Leone, dovuta a Luigi Marfè, non è certo da meno della precedente e la sua densa postfazione (Desiderio come deriva) sottolinea magnificamente l'insoddisfazione ripetitiva del desiderio e l'edonismo "vano, famelico compulsivo" che caratterizzano quest'opera semplice e sfuggente, datata e moderna, riproposizione esotizzante e perversa della lignée passionale che dal Werther era passata attraverso Adolphe e Dominique. Carlo Lauro
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