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Anno edizione: 2021
Anno edizione: 2021
Avvicinati e ascolta è l'invito che Charles Simic rivolge ai lettori e alle lettrici in questa raccolta di liriche.
«L'erede forse più piccante e innovativo del minimalismo americano» - Alberto Fraccacreta, Robinson
Con il suo solito sguardo ironico, empatico e irriverente, il poeta àncora i suoi versi alle molteplici sfaccettature del contemporaneo e, allo stesso tempo, esplora le profondità dell'esperienza umana, cercando in quegli abissi la scaturigine stessa della parola poetica.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Simic con la sua vena ironica non rinuncia a salvare brandelli dell'umano. I suoi versi sorprendono sempre, si torna a rileggerli perché fanno pensare e pensare.
Già il titolo stesso (citazione biblica tratta da Dt 5, 27) sembra voler programmaticamente esemplificare l’intenzionalità comunicativa dell’autore, basata sulla relazionalità non solo con le persone, ma con tutti gli elementi del creato: “La risata silenziosa / delle stelle / nel cielo di notte / ci dice tutto / ciò che ci serve sapere”. I versi di Simic danno voce, in maniera incisiva pur nella loro docile indulgenza, alla fragilità dell’esistenza umana, esposta ai capricci del caso, ai soprusi dei potenti, alla crudeltà della morte. Siamo tutti “uno spaventapasseri nella tempesta”, ci muoviamo in equilibrio su un filo teso tra due grattacieli, acrobati dell’incertezza: “Molto lutto ci attende, amici miei”, e in questa precarietà esistenziale viviamo in una fratellanza impaurita e confusa con chi ci sta intorno. Incomprensibili ci appaiono causa e finalità del vivere, quando sappiamo che morendo troveremo ad attenderci solo il buio, il niente. “Sarai come un bimbo nuovo a scuola / che ha paura di guardare la Maestra / mentre si sforza di capire / cosa stanno dicendo / di tutto questo niente”. E il niente è “ancora più terrificante che sentire qualcosa”: “Charles Simic ha paura della morte? / Sì, Charles Simic ha paura della morte. / Prega il Signore alto nei cieli? / No, pasticcia con la moglie”. Al timore che non esista una giustificazione del male, che non ci si possa opporre all’ingiustizia terrena e divina, offre però rimedio la serenità degli affetti familiari, la “dolcezza arcana” dell’amore, o la minima avventura di una merenda in campagna: “Prima che arrivino le piogge autunnali / facciamo un altro picnic, / ora che le foglie cambiano colore / e l’erba è ancora verde in certi posti. // Pane, formaggio e un po’ di uva nera / dovrebbero bastare, / e una bottiglia di vino per brindare ai corvi / sconcertati dal trovarci lì seduti”.
Recensioni
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Un gran bel titolo, non c’è che dire, di quelli accattivanti; e sorprendente il suo contenuto. Non si smentisce neanche stavolta il poeta statunitense di origine serba Charles Simic (classe 1938), in grado di stupirci ancora con la sua ultima raccolta, Avvicinati e ascolta (181 pagine, 16 euro) edita in Italia da Edizioni Tlon (2020), tradotta da Moria Egan e Damiano Abeni. Riceviamo il volumetto che si presenta in un formato elegante quanto pratico, e ci addentriamo nel magico mondo dell’autore, un’intricata foresta metropolitana piena di simboli e di trabocchetti, a metà strada tra la periferia di Chicago e quella di Gotham City.
Continui capovolgimenti, sintattici e semantici, tengono sempre il lettore sul chi va là. Già il titolo, che richiama l’attenzione del senso uditivo, cozza con l’esergo scelto per l’apertura: «come se servissero gli occhi per vedere» (un verso dell’eclettico scrittore R. Waldo Emerson, che ci ricorda una ben più nota citazione di Antoine de Saint-Exupèry). La parte iniziale della raccolta, le prime quattro liriche, è costruita su questo gioco di scambi tra la vista e l’udito. La prima, Alcuni uccelli cinguettano, rimanda al verbo degli uccelli e alla loro ancestrale sapienza, che qui però è tutta umana e quindi comprende la partecipazione alla follia degli umani: “Dev’essere qualcosa di enorme/ che li fa uscire di senno-/ la vita in generale, l’esser uccelli” (p.23). La loro virtù di volatili consiste soltanto nella poesia, la sola in grado di trasformare in canto ciò che altrimenti sarebbe semplice starnazzare, gracchiare collettivo e fastidioso. Gli uccelli sono tali anche per il silenzio che sa ascoltare e riconoscere la poesia (cfr. Uccelli al crepuscolo, p.155). Proseguendo, la seconda lirica s’intitola Nascondino, e chiaramente strizza l’occhio alla vista… ovvero al tempo, che ci nasconde con la sua ombra (di morte: Time-that murderer/ No one has caught yet, p.145); la terza invece è Destino cieco, e serve quasi da preludio alla successiva, che porta lo stesso titolo del libro:
Sono nato – non so a che ora –
mi hanno dato una pacca sul sedere
e mi hanno passato in lacrime
a un morto da parecchi anni, in una nazione
che non è più sulle carte geografiche,
dove come una foglia su un albero,
la bella stagione finita,
ho vorticato cadendo a terra
quasi senza far rumore
perché il vento mi portasse lontano
benedetto o maledetto-chi può dirlo?
Non me ne preoccupo più
dato che ho sentito parlare
di una signora cieca chiamata Giustizia
disposta ad ascoltare i problemi di chiunque,
ma non so dove trovarla
per chiederle il motivo
per cui il mondo certi giorni mi tratta bene
altri giorni male. Comunque mai e poi mai
sarei il primo a darle contro.
Cieca com’è, poveretta,
se la cava meglio che può.
C’è davvero tanto dell’autore, sia in termini biografici che di poetica, compresa la grande ironia capace di smorzare il dramma e l’assurdo. Questa poesia davvero è una sintesi tematica del libro; la seconda strofa ad esempio è un inno lieve al Caso, e pare quasi la riproposizione della scena finale del film Forrest Gump (lì una piuma, ma la visione è la stessa). Il brano va a congiungere il tema della vista e dell’udito, e lo fa operando uno di quei capovolgimenti tipici della sua tecnica: non è il lettore, che narcisisticamente si sentiva ammiccato dal titolo, ad essere invitato all’ascolto; bensì quella cieca signora che è Giustizia (malgrado il sarcasmo, il tenore è diverso rispetto a Carl Hamblin di Edgar Lee master). L’autore dunque si è fatto beffe di noi, ma non abbiamo il tempo per accusarlo, giacché egli ci ha trascinato nel cuore del dramma dell’umanità intera. D’altro canto, se lui alla fine non accusa Dìke, possiamo perdonarlo pure noi, anche per i tranelli successivi.
La poetica di Simic sembra una versione dark del realismo magico, onirico direi, visto le continue inversioni tra sogno/incubi e realtà. Egli vede salpare la sua vita come sull’Olandese volante, la celebre Nave fantasma (lirica p.175, la penultima e a mio avviso una delle più belle); mi ricorda pure l’investigatore de Il mistero di Sleepy Hollow, per le sue atmosfere notturne, insonni (come la sua raccolta forse più nota in Italia, Hotel Insonnia, edita da Adelphi nel 2002). Per farsi un’idea basta elencare il bestiario da lui utilizzato nel testo: gufi, rospi, ratti, gatti neri, sciacalli, serpenti, mucche pazze e molto altro:
Ho visto un banchetto servito
su una tavolata
a cui sono convenuti solo i corvi
Ho visto un cane continuare
ad abbaiare come un antico profeta
Ho visto topini e pantegane
fuggire terrorizzati
lungo labirinti
preannunciando
i malefìci prossimi venturi (“the evils to come” il verso originale, cfr. Terrore, p.67)
Ciononostante, gli unici veri Mostri sono quelle scimmie urlanti che Zeus plasmò incerto, accorgendosi infine che
(…) andando dalla A alla Z nel Bestiario
non riuscì a trovare una sola specie
che uguagliasse l’immensa capacità di far male
di queste orribili creature,
nemmeno tra i ragni mortiferi
o tra i vermi dei cimiteri
che non hanno colpa per quello che fanno (p.90).
Una continua lotta contro il Nulla
Il simbolismo dell’autore è molto particolare: nessun esito metafisico, solo una continua lotta contro il Nulla: l’ultima lezione/ sarà sul niente./ Non sull’amore né su Dio,/ ma sul niente” (p.105). La domanda religiosa c’è, sarebbe lecita, ma il cielo stellato si fa grasse risate silenziose (p.59) prima che i nostri pensieri vengano trattati come venditori ambulanti di Bibbie che si trovano solo porte sbattute in faccia (p.99). Un’horror vacui soggiace in quasi tutte le poesie, ed i versi hanno una tensione che ricorda il tremore della terra prima di un’eruzione nichilista che viene costantemente rimandata. La poesia ci mette una pezza insomma, raccoglie i cocci tra le rovine (cfr. p.71, p.129), tende un filo sopra la voragine e ivi camminiamo in equilibrio precario, anche se, nella migliore delle ipotesi, gli uomini sono “like a scarecraw in a squall” (p.39). Mentre la natura appare come una splendida cornice, neutra e discreta che talvolta cerca di comunicare con noi, è decisamente l’uomo l’elemento demoniaco del creato, di fronte al quale le foglie cadono dagli alberi mute e sgomente (C’è qualcosa di malefico là fuori, p.63). Degli uomini dunque nessuno si salva? In verità ci sarebbero delle figure di bontà nel mondo, ma vengono ignorate o derise da tutti. C’è una particolare tipologia di ultimi che Simic racconta nel loro procedere controcorrente, gli anziani. In particolare segnalo Storia greca (p.75). Sullo sfondo, una tragedia di migranti assiepati nel loro dolore prima ancora che loro nave affondi; il cielo non sente le grida/ di quelli che affogano ma io sì – dice una vecchina, chiedendo in giro dove posso cucinare qualcosa per queste persone.
E i morti arenati sulla sponda
spalancavano gli occhi come bambini
destati di colpo da un brutto sogno
e si accalcavano a baciarle la mano.
Brindare alla vita, nonostante tutto
Infine, vale pena spendere due parole per la struttura del libro, diviso in quattro sezioni/tempi (efficace la scelta di non mettere nell’indice i titoli dei brani) che in realtà sono due atti: nel primo si assiste ad una furiosa discesa verso gli inferi dell’uomo e verso la terribile vuotaggine di cui è capace il suo cuore. Le terza e la quarta sezione non rappresentano affatto una simmetrica risalita; semplicemente, l’autore tira il fiato, sfrutta anche situazioni banali per meditare su ciò che resta della vita mentre la canalina di scolo porta via l’acqua della tempesta appena calmatasi (p.109). Simic cerca occasioni di ristoro, come pause fugaci fra l’assurdo trambusto quotidiano. Tra tutte, è il desiderio degli amanti che lo rasserena, egli conosce bene il potere analgesico che può avere sulla vita degli uomini. Nessun idealismo: come cavolo avrà fatto Petrarca a scrivere tutte quelle poesie per una sola Laura? (p.123); una paradossale invidia invece per la serenità di certe coppie di anziani in grado di “vivere nell’assoluta ignoranza/ di ciò che succede al mondo” (sleepwalkers in love li chiama, p.141). Per quanto lo riguarda, egli sa trovare rifugio a tarda ora nei suoi club midnight, suonando i diesis della vita tra luci soffuse, cicche di sigarette fumanti e donne pensose nei bicchieri (p.133). Ma prima di congedarsi, l’autore c’invita ad un ultimo picnic insieme (il brano finale). Prima che la pioggia ritorni, mentre l’erba è ancora verde, sediamoci, mangiamo e brindiamo alla vita nonostante tutto, alla faccia dei corvi che ci osservano.
Se verrà il freddo – com’è certo – ti stringerò a me.
La notte scenderà presto.
Scruteremo il cielo sperando che la luna piena
ci illumini il cammino.
Arriva alla fine quasi insperato, l’utilizzo del verbo sperare. Simic ha ancora fiducia nella possibilità dell’uomo di scrutare il cielo, e che la luce (sia pure quella lunare) non sia più soltanto qualcosa che lo giudica e condanna, mostrandogli gli abomini di cui è capace.
Recensione di Giacomo Paternò
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