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Una testimonianza preziosa, una forza di coraggio non unica, ma rara. Non bisogna dimenticare, cacciamine tesoro.
Ottimo libro interessante e a tratti commovente. La traduzione del titolo in italiano non rispecchia totalmente il contenuto ma non mi sembra un metro di giudizio per il contenuto. Fanno specie i commenti dei soggetti infastiditi dal temperamento dell'autore, in cerca di libri tutti uguali con vittime inermi per qualche lacrima facile
Gli ho dato due stelle solo perchè è un libro avventuroso che comunque mi ha fatto passare qualche ora di gradevole spensieratezza ma ho capito subito che si trattava di balle spaziali. Leggo altre recensioni che criticano l'autore per avere scelto un titolo inappropriato visto che ha passato solo un paio di giorni nel campo dei prigionieri comuni. Per me non ci ha passato nemmeno quelli, è una cosa impensabile, sarebbe come scendere di un girone all'inferno solo per curiosità. In più, non si fregava la meticolosa organizzazione tedesca.
Recensioni
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Durante la seconda guerra mondiale il giovane soldato inglese Denis Avey (classe 1919) venne catturato dai tedeschi in Egitto e dopo varie peripezie, fra cui una sosta in Italia, finì in un campo di prigionia militare vicino ad Auschwitz. Per la precisione – dato che il lager per antonomasia era in realtà costituito da tre sezioni/località contigue: Auschwitz, Birkenau e Monowitz – Avey si trovò a dover lavorare per i nazisti presso quest’ultimo campo di concentramento, accanto alla fabbrica che il gruppo industriale IG Farben stava costruendo per produrre gomma sintetica.
Appena giunto a Monowitz, ciò che subito lo colpì fu la presenza di migliaia di “strane figure” ovunque presenti nel lager. Essi: “Indossavano tutti camicie e pantaloni logori, a righe, più simili a pigiami che ad abiti da lavoro. I loro volti erano terrei, le teste rozzamente rasate, appena coperte da minuscoli copricapi”. Si trattava di reclusi speciali, in quanto ebrei, destinati, secondo i piani aberranti dei gerarchi hitleriani, a finire presto o tardi nelle camere a gas e nei forni crematori di Birkenau – il famigerato campo di sterminio – ultima tappa esistenziale per milioni di vittime dell’Olocausto. Anche i soldati inglesi vengono costretti a lavorare undici ore al giorno accanto a quelle “povere creature”, riconoscibili non solo dalle “uniformi a righe” ma dalla magrezza estrema che le accomuna tutte. Solo a sera, ricorda Avey, i prigionieri si separano: “loro ad Auschwitz III, di cui sapevamo solo - sussurri tra disperati - che era l'inferno in terra. Noi all'E715, dove ci aspettavano baracche e rancio scarso, ma almeno la certezza di arrivare all'indomani”. Tuttavia questa disparità di condizioni ferisce nel profondo il soldato britannico, il quale – come poi confesserà egli stesso, pubblicamente – è “tormentato dal bisogno di sapere di più” sul trattamento disumano cui sono sottoposti gli internati ebrei. Nasce dunque il progetto, tradotto poi in realtà, di introdursi ad Auschwitz sin nelle baracche dei condannati allo sterminio. Impresa folle, rischiosissima, quella di farsi volontario testimone della barbarie omicida perpetrata dalle SS. Però Denis Avey supera ogni timore, riesce a corrompere un Kapò e per ben due volte, travestitosi con una lercia divisa a righe, entra in quell’inferno, riuscendo poi a uscirvi indenne. Fisicamente, quantomeno, perché a livello psichico le cose non vanno così lisce. L’aver guardato in faccia l’abominio lo segnerà per tutta la vita: mai più dimenticherà l’efferatezza del lager. Anche terminata la guerra e in libertà, infatti, per anni e anni l’ex deportato torna ogni notte ad Auschwitz tramite sogni che puntualmente si trasformano in incubi. Quindi, a scopo di autodifesa, Avey si chiude nel silenzio o, meglio, in un atteggiamento di schivo riserbo che è durato sino a qualche tempo fa; fino al momento in cui gli propongono di parlare della guerra in un'intervista. Solo allora si decide ad esporre la sua testimonianza (giacché quanto il militare aveva riferito ai suoi superiori, una volta fatto ritorno in patria, non era stato tenuto in gran conto), la quale produce un autentico scalpore. Come il suo libro di memorie – scritto alla bella età di novan’anni – dal intolo: Auschwitz. Ero il numero 220543, recentemente tradotto e pubblicato in italiano da Newton Compton.
L’orrore e il dolore dell’Olocausto, a detta di molti ex internati nei campi di sterminio nazisti, sono inenarrabili: davvero letteralmente indicibili. Ma affinché le generazioni future non abbiano a smarrire la memoria storica, i vari Primo Levi, Simon Wiesenthal, Elie Wiesel e tanti altri sopravvissuti ai lager hanno saputo trovare le parole per raccontare quello che non deve e non dovrà mai finire nell’oblio. Ed ogni testo, ogni voce ha una sua specificità, un suo timbro peculiare e irripetibile. Come senz’altro straordinaria e senza eguali è l’avventura di cui Denis Avey fa partecipi i lettori attraverso un registro narrativo scorrevole, nitido, quasi cinematografico, e mediante una scrittura all’insegna della schiettezza e dell’autenticità. In grado di consegnarci la storia di un eroe, ovviamente, ma in primo luogo di un essere umano; con le sue debolezze ed i suoi limiti, certo, ma anche forte d’una generosa compassionevolezza e della convinzione che serva, anzi sia doveroso, divulgare la propria sofferta testimonianza.
A cura di Wuz.it
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