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recensione di Frigessi, D., L'Indice 1998, n. 8
Suggerisco di cominciare dalla fine, dalla fotografia di Marta Ascoli. Ha 17 anni, due lunghe trecce nere sulle spalle, sta appoggiata a una bicicletta e guarda tranquillamente, con un mezzo sorriso, davanti a sé. Il 19 marzo 1944, mentre prepara in camera sua l'esame di chimica - Marta Ascoli, di padre ebreo e di madre cattolica, frequenta le Magistrali -, insieme ai genitori è prelevata dalle SS e trasportata alla Risiera di San Sabba. Dopo il '43 Trieste era diventata il centro dell'Adriatische Künstenland, gli Ascoli sono denunciati ai tedeschi da concittadini che fanno parte del Comitato difesa della razza.
Dopo pochi giorni in Risiera padre e figlia sono deportati ad Auschwitz, dove il padre sarà subito eliminato.
Per più di cinquant'anni Marta Ascoli è rimasta in silenzio. Queste sue memorie, scritte ora per un dovere di testimonianza "rivolta soprattutto a coloro che non credono", sono straordinarie. La prosciugazione dei ricordi, che si succedono quasi a stento e seguono un ritmo secco e staccato, ha effetti stranianti. Gli episodi della vita nel campo sono rievocati senza affanno, su tutti cade la luce pallida della banalità del male. Gli "sport" delle SS, la fame e le sevizie, i lavori massacranti e gli interminabili appelli, i crematori: queste cose che avevamo già lette, già sentite, qui entrano in noi con l'affilatezza di un incubo.
Non mancano episodi memorabili: la rivolta del Sonder Kommando al quale parteciparono molti greci: la prigioniera ricorda "verso l'imbrunire i loro canti struggenti"; lo smantellamento manuale, a opera di un gruppo di donne, di un crematorio. Nel giorno in cui compie 18 anni, Marta Ascoli è sottoposta a una selezione: non viene scelta. Alla fine del '44 viene condotta con gli ultimi prigionieri nel campo di Bergen-Belsen - quello in cui morì Anna Frank -, quando già si sente in lontananza il rombo dei cannoni alleati. Marta, che giace stremata in un gruppo di donne che le muoiono accanto di freddo, di fame, di malattia, decide di farla finita. Si alza e si avvicina al filo spinato che circonda il campo. Le viene incontro un soldato molto giovane, lei lo guarda "e lo supplicai di spararmi". Il soldato si volta e senza parlare si allontana. Perché? "Non saprò mai la verità", scrive l'autrice. Che ritorna ad Auschwitz nel 1986, per cercare di capire la tragedia che ha vissuto, ma conclude: "capire non mi fu concesso". Eppure, a ritornare libera nei luoghi dell'umiliazione le sembra di scoprire il senso della vita.
La lotta senza speranza di sopravvivere nel campo non è sostenuta da sentimenti religiosi. L'autrice attribuisce la sua salvezza "per buona parte, al caso", oltre che alla sua volontà di rivedere la madre che ritroverà a Trieste con i fratelli scampati. Ma compare l'idea che - se non sbaglio - anche Primo Levi considerava decisiva: "bisognava sopravvivere per raccontare". Marta Ascoli ha tenuto fede a questa promessa.
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