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La svolta del secolo ha segnato in tutta Europa un risveglio di interesse per le lingue originarie, che per noi sono i gloriosi dialetti regionali ma altrove, come nelle isole della Gran Bretagna, vere e proprie lingue ancora affioranti dal comune ceppo celtico: l'irlandese, il gaelico di Scozia, il manx, il gallese tuttora generalmente parlato in Galles, e che dagli anni sessanta è lingua nazionale alla pari con quell'ibrido di germanico, scandinavo, francese ecc. che è l'inglese. Un affioramento e una resistenza paradossali, se si pensa che insorgono proprio nel cuore della civiltà che ha imposto la propria egemonia linguistica sul resto del mondo. Non mancano, in queste sopravvivenze, espressioni letterarie degne di nota, spesso inclini al ricupero di un certo primitivismo, di un'ingenuità, elementarità ed evidenza di impianto che è facile assimilare alla nostalgia per l'origine, e che le lascia però isolate fra le sempre più sofisticate astuzie della letteratura contemporanea in generale, e specialmente di quella in inglese.
La plaquette di poesia curata da Paola Del Zoppo e pubblicata da Delvecchio non sfugge a questa regola: Gwyneth Lewis è una poetessa gallese molto apprezzata dai suoi conterranei, che scrive sia nella lingua originaria sia nella lingua acquisita a scuola. Qui usa la seconda per commemorare la prima, e la commemora nel modo più evidente di cui oggi disponiamo per commemorare qualcuno o qualcosa, cioè dichiarandola definitivamente scomparsa e imbastendo un bel giallo sul suo "assassinio". Dicono che il gallese è morto? Bene, si convochi un detective e si cerchi il colpevole. Ma i colpevoli siamo noi, e per prima la stessa autrice che comincia così la sua confessione: "L'ho fatto. Ho ucciso la mia lingua madre. / Non avrei dovuto lasciarla lì tutta sola. / Tutto ciò che volevo era divertirmi un po' / con un altro corpo / ma adesso che è scomparsa / il silenzio è tremendo". E la metafora delle indagini/esequie viene estesa, e per così dire letteralizzata, negli intrecci dell'abbandono e dell'indifferenza: gli inizi del distacco dalla madre a scuola, alle prese con le lingue straniere, inglese compreso; la scoperta che il padre poteva tradire e il sospetto che anche questa mamma non fosse di moralità adamantina; il continuo equivoco delle parole; le difficoltà economiche, fra cui la rovina portata dalla mucca pazza; l'interrogativo sulla sopravvivenza di chi resta così diviso a metà; e insieme, il ricordo della pienezza possibile solo con la lingua delle origini, che rende il rapporto con la natura paragonabile all'esperienza sessuale, e rimpiange gli animali, che rispondevano ai loro bei nomi in gallese
La confessione viene rielaborata in altre due sezioni del volumetto: la prima, Memorie di uno psichiatra, sul rapporto fra malattia mentale e linguaggio, in cui l'autrice si interroga sul suo legame nevrotico con la lingua per sciogliere, attraverso l'analisi e la scrittura, l'incubo di quella perdita; la seconda, Angeli del caos, di commento a tele di Dragan Andjelic raffiguranti appunto angeli, ossia agenti della "comunicazione fra due diversi mondi di consapevolezza", che proprio in questa funzione non possono che registrare, oggi, la distanza fra il loro e il nostro caotico mondo dove trionfa Babele.
Le traduzioni sono felici, salvo qualche caduta (L'angelo della morte); il testo inglese a fronte ha degli errori inspiegabili (a meno che non si volesse celebrare l'assente gallese storpiando il presente inglese
). Franco Marenco
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