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recensione di Tosti Croce, M.P., L'Indice 1995, n. 5
Sembrerebbe introdurre a una poesia intimista di antica grazia, il "vocio di comare erba" che dà il titolo al bel volume apparso nelle edizioni Semar. La stessa suggestione emana dal nome dell'autore, Maria de Laude, che sembra uscito dalla penna di Gabriele D'Annunzio, come nota Paolo Mauri. Ma il 'journal' di questa anomala eroina che ha trascorso la vita in un laboratorio fotografico, registra una voce non sommessa n‚ altera che nasce dall'opacità del silenzio ed esplode nella luce del grido. Con un procedimento speculare a quello seguito nella sua professione, Maria de Laude trasferisce l'attenzione dello sguardo per il segno che affiora sulla lastra nera all'attesa della parola che sulla pagina bianca del suo io darà forma e materia alle intuizioni e scoperte di un mondo estraneo all'universo domestico, un mondo non di memorie ma di scoperte, la cui immagine, "n‚ lieta n‚ triste", è creata, non riprodotta, dal suono e dal colore della parola.
Il grande silenzio che avvolge l'anima in cerca della sua parola affiora di continuo ("si consuma in silenzio", "rinunciò a sedere sulla radice del silenzio"; "il silenzio scolpito in legno"; "abbiamo posato il piede nel vergine silenzio"), rimbalza contro specchi ("il mio specchio mi guarda fisso, chissà è muto!"; "nello specchio occhi bianchi mi fissano"; "torva dinanzi allo specchio di ghiaccio: dille chi sei"), per essere infine squarciato dal grido ("dal suo giorno lungo trabocca un grido"; "sente dentro di sé il grido"; "mi affatico a cercare il grido"). Forse, appuntando i suoi versi tenuti così a lungo segreti, sul retro delle fatture, in ogni pezzetto di carta a portata di mano, Maria de Laude si sarà sentita come il suo bellissimo "neonato vestito di puro suono" che strilla perché "vuol sentire la sua voce enorme". L'avventura della parola è una necessità imperiosa, disperata ("grido la mia inferiorità: / dov'è la mia creazione?") quanto inebriante: "Chi pianta una frase fiorisce per sempre". Talvolta, come rapita da sé, la parola si fa pennello, immagine, e dipinge favole chagalliane: suonatori ambulanti in sere colorate di giallo, innamorati delle stelle col viso pallido, cantastorie dal ciuffo nero, "ombre di marionette infagottate di mille rattoppi", colori che "tengono le mani infilate fra un mantello grigio viola"; oppure abbozza scorci magrittiani ("cammina a testa bassa, sembra una riga nera"; "un abito nero squallido come una tonaca: è rimasto appeso alla gruccia") o echeggia lacerazioni munchiane ("lanciò un grido altissimo con la faccia contro terra").
Il cortocircuito delle associazioni produce talvolta una sorta di concrezione materica al limite dell'indecifrabile, altre volte la visionaria eppure limpida contemplazione dell'universo fisico e delle sue leggi: "Apriamo il pacco dell'energia"; "la cellula è una metropoli in fermento. / Energia vitale da un raggio di luce... la scala a chiocciola è l'alfabeto della vita: si apre la cerniera lampo / il messaggio è deformato. / C'è un assassino tra i geni". È fin troppo semplice credere che versi come questi siano stati letti con particolare emozione da Rita Levi Montalcini, che ha esaudito il suo voto di restituire alla luce un prezioso documento pratico immerso nell'oblio, rispondendo all'appello dei suoi ultimi versi: "Non aveva mai avuto un nome... e io ho pregato: / Signore fa che tutto ciò non finisca".
Non è soltanto la proiezione in versi della formula del DNA o un debito affettivo a stabilire un legame fra il premio Nobel e la fotografa-poeta. La presentazione di Rita Levi Montalcini al libro di Maria de Laude è qualcosa di più d'una semplice presentazione, d'una scoperta, d'un dono ai lettori. È, verrebbe voglia di dire, un libro nel libro o, del libro, un capitolo essenziale. Nell'evocazione di altri mondi poetici (Yeats, Montale, Brodskij), Rita Levi Montalcini compie un gesto d'umiltà, ovvero si confessa. Ci dice d'una sua passione, d'un amore finora rimasto segreto - come segrete, o nascoste, erano le poesie di "Ascoltando il vocio di comare erba". La prossimità dello scienziato al mondo della poesia non pretende di essere un semplice "mon coeur mis a nu". Va oltre, indicando l'affinità profonda tra le "due culture", anch'esse entrambe presenti in Maria de Laude.
Questa affinità viene rivelata con pudore, in modo indiretto: là dove la presentazione sottolinea un carattere di profezia, che spesso affiora nei versi di Maria de Laude. Distinguendo, con le cautele del caso, questa poesia da quella di Yeats e da quella di Montale (dal suo "pessimismo", dai suoi neologismi), Rita Levi Montalcini ne coglie - tra le fulminee accensioni che aggregano e disintegrano il corpo delle immagini - il tono di veggenza - e indica, in proposito, versi che preannunciano future scoperte scientifiche. Veggenza come scienza, dunque; o, che è lo stesso, scienza come veggenza. La poesia resterà lontana da qualunque fuga didascalica; e la scienza da ogni inutile estetismo. Ma le due culture, i due mondi, non sono lontani come si crede. Partecipano della solitudine impervia in cui si compie la propria missione, la propria ricerca, che è sempre scienza e sempre poesia, perché obbedisce allo stesso imperativo di assolutezza. Tutte e due, Maria de Laude e Rita Levi Montalcini, sono fra "coloro che colla fronte alta scrivono fiamme / su specchi nudi.".
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