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Insipido, un libro che si legge con l’espressione un po’ interdetta, che non lascia niente e che si finisce con un sorriso, e non perché il finale sia particolarmente riuscito, ma perché, appunto, è finito. Sospiro di sollievo. L’impressione è che l’autrice abbia avuto un’idea, dunque… scriviamo di un medico, sì, magari donna, magari nel ‘500, magari che ha perso il padre e si mette in viaggio per ritrovarlo. Molto bene. E l’idea finisce qui. Non c’è alcuna profondità, non c’è studio, non c’è trama e non ci sono sentimenti, è come se l’autrice fosse andata avanti al buio, senza sapere dove la sua idea l’avrebbe portata, e descrive un viaggio pazzesco in poco più di trecento pagine, qualcosa che un autore più bravo di lei avrebbe certamente sfruttato per tenere avvinto al lettore per mille, forse duemila pagine meravigliose… invece questa è solo un’accozzaglia di narrazione asettica, dialoghi a volte improponibili, descrizione di malattie reali o inventate, stralci di lettere che non hanno né capo né coda e, aspetto che più ho apprezzato di tutto il romanzo, la descrizione di rimedi più o meno efficaci della medicina del cinquecento. Mi correggo, non è vero che non lascia niente, lascia perplessità, che però dura appena qualche ora, perché si dimentica in fretta. Tutto inutile, come se non avessi letto niente. Posso dire un’altra cosa? Ma con tutti i romanzi bellissimi che vengono pubblicati all'estero, in qualunque lingua, e l’enorme lavoro che sta dietro una traduzione in italiano, possibile che dobbiamo scegliere queste mediocrità, e lasciare intradotti e quindi sconosciuti in Italia degli autentici capolavori? Voglio dire, se si traducesse tutto ben ci starebbero anche romanzetti scadenti come questo, ma dal momento che la competizione è accanita e che ad essere editato e pubblicato in italiano sarà solo un romanzo su non so quante migliaia, non si possono fare scelte più oculate?
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