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Arcobaleni e chiari di luna, un romanzo di Peppe Lomonaco Ho letto più di un anno fa la prima parte di “Arcobaleni e chiari di luna” e l’ho ripreso adesso nella bella edizione di Lilit Book. Trovo bellissima e appropriata l’illustrazione di copertina di Annarita Scaramuzzi che, da una parte rievoca le stampe ottocentesche del classico viandante avventuroso e vagabondo, dall’altra l'immagine dell’emigrante con valigia dei giorni nostri. Un uomo alto, affilato, determinato che cammina a lunghi passi e a testa bassa verso non si sa dove. Si direbbe più che un partente, un uomo che va via. Un aneddoto ebraico sui pogrom nella Russia zarista racconta di un villaggio distrutto e di un uomo che chiede a un altro dove va. Vado via, dice questi e l’altro: Via da dove? La stessa domanda si potrebbe fare al viandante della Scaramuzzi, ma la sua risposta sarebbe surreale, complicata e implausibile. Il partente, il profugo, l’emigrante – o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare- che è senza infingimenti letterari lo stesso Lomonaco, parte portandosi appresso l’intero paese. Non un’idea di paese, ma un particolare e preciso agglomerato con le sue stratificazioni e il suo paesaggio sospeso sul nulla. Nessuno può portarsi appresso un tale bagaglio. Neppure le antiche popolazioni che si spostavano in massa ricorrendo all’autoinganno di “rifondare” la città d’origine. Per lo meno ci provavano, ma in tempi più o meno brevi venivano assorbiti dai nuovi luoghi. Lomonaco prova a raccontare lo sradicamento, la fuga e il sogno di "altrove" di un giovane degli anni Sessanta nella Basilicata-Lucania dove la riforma agraria e i massicci investimenti in bonifica e irrigazione si stanno rivelando insufficienti a bloccare lo svuotamento dei paesi. Una Basilicata in cui si avverte il cambiamento del paesaggio fisico, ma non quello di mentalità e logiche di potere. Queste, al contrario, hanno cominciato a pervadere anche gli ambienti e i rappresentanti del partito sognato come vindice –
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