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Daniela Cattani Rusich è anima spezzata che vaga, adorna della sua "incoscienza candida" nei giardini sterminati della poesia. Essa è moto del cuore. Di un cuore di donna che palpita e da ogni battito sgorgano versi, quale musica d'acqua sorgiva, che monda. Purifica chi tesse il canto e chi il canto ascolta. Daniela dà voce a una poesia femmina, che vuole essere "volo" "al centro dell'assenza/e del diluvio", con gaiezza fanciullesca e perseveranza di donna. La poesia di Daniela è azione dell'anima che vuole avere voce dove i monti scoscesi si uniscono, si fanno valle e custodiscono l'eco. Si tratta dell'eco leggera e suadente di veli, di pizzi, di colori ora accesi, ora opa-chi, il cui unico desiderio è soffiare su quella "ferita" che coincide col "taglio della notte". E si tratta della notte ferita di bimba, che voleva solcare "inesistenti perfezioni", si tratta della ferita di figlia, che scopre l'assenza e ne fa pianto; si tratta della ferita di madre: ingoia la morte, per sublimarne le vesti; si tratta della ferita di poetessa: nutre la terra e rimane sterile a guardare le cose che scorrono, il tempo che passa, "i petali un poco gualciti" di pascoliana memoria. Daniela Cattani Rusich è la sua storia, è la sua vita, è le sue parole; ma Daniela Cattani Rusich racconta, da donna, la storia, la piange, la innalza. Ne fa poesia. Ne fa quasi preghiera, ne fa rivendicazione, ne fa bandiera poetica. Infrange "specchi ai bordi del cielo", centellinando i suoi giorni dispari, i suoi giorni storti, quelli assolati, quelli rotti. Quelli dei quali raccoglie i cocci, per ricomporli in una collana di perle e farne poesie. Daniela è la difesa: "Dannato è l'uomo che succhia il sangue dei figli", la condanna è senza appello. Perché è grido del cuore. È la purezza delle mani delle madri che cinge di veli l'infanzia e punta spade affilate contro chi la nega. La favola è tutta partorita. Lo scopo uno solo.
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