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Un testo inflessibilmente critico. Il sottotitolo della traduzione italiana sembra quasi voler selezionare il pubblico dei lettori. Nell'edizione inglese, infatti, il sottotitolo non è "l'uomo che non volle la pace", ma, semplicemente, "biografia politica". Il giudizio critico degli autori riguarda i risultati ottenuti dal leader palestinese, che non brillano se paragonati alle possibilità che gli sono state presentate nel corso della storia. La psicologia sfuggente e contorta di Arafat viene messa bene in luce: con la reticenza nel prendere decisioni definitive, Arafat ha infatti sempre tentato di tenere tutte le porte aperte, e nel testo vengono riportate dichiarazioni a volte concilianti, a volte durissime, come quella della fine degli anni sessanta, dove il raiss dichiarava guerra non a Israele, ma alla società israeliana tutta per costringerla a fuggire dal territorio dove sorge lo Stato di Israele. Il merito degli autori è quello di averci fatto scoprire un Arafat meno legato all'immagine di icona patriottica e più incastrato dentro a quella guerra di tutti contro tutti che è stata la politica araba del passato. Forse Arafat non è stato coraggioso come un Michael Collins, che prese agli inglesi il massimo che poteva dell'Irlanda, ma il testo rimane un testo di parte, l'impianto delle note fa riferimento eccessivo a voci troppo schierate "dalla parte dell'Occidente", e non sospetta mai che il raiss potesse in molti momenti della sua carriera avere buone ragioni per agire con ambiguità e rifiutare le proposte di pace americane e israeliane. Forse i palestinesi non hanno ottenuto molto in concreto con la leadership di Arafat, ma è difficile immaginare un gruppo nazionale così piccolo, eppure in grado di fruire nel mondo di una copertura mediatica da superpotenza, come il popolo palestinese.
Paolo Di Motoli
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