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«Se potessi toccare un fiocco di vera neve, stringere nel pugno quel caleidoscopio gelato in cui un minimo moto di cristalli bianchi può provocare un'esplosione di arcobaleni - saprei leggere lo sguardo della donna che si è alzata dal divano di fronte al televisore per accostarsi alla parete di vetro, là dove lo spigolo del grattacielo s'incunea nel vento».
Mondi diversi e discontinui, popolati di figure reali e di ombre. Luoghi di formazione e di deformazione del ricordo, di sovrapposizione delle vicende individuali con i destini collettivi: il deserto del Nord Africa disseminato di relitti dell'ultima guerra mondiale; la Como apocalittica del '45; l’utopica Sicilia del '68. Ma a legare questi racconti in un’unica sequenza interviene il saldo filo narrativo che li attraversa con l'energia visionaria del sogno, dell'inatteso, del caso.«Abbandonai il progetto autobiografico» rivela l'autrice. «Avevo accumulato schede su schede, falsi inizi; avevo catalogato i materiali diaristici per immagini ossessive, per amori e guerre, eventi storici e sogni vani. Nelle mie intenzioni avrebbero dovuto aggregarsi come le schegge di legno dipinto, i fili di canapa, i ritagli di carta che entrano a comporre una nave nella bottiglia... un'illusione di viaggio».Negli anni i materiali scampati al rogo autobiografico sono precipitati in cristalli di racconti, dove il tempo fantastico della mente s'incrocia con la storia e i luoghi diventano i contrafforti della memoria.
recensione di Spampinato, G., L'Indice 1997, n. 5
Diciamo subito che non di "raccolta" si tratta ma di un vero libro: un oggetto letterario, cioè, fluidamente compatto, un caleidoscopio che danza intorno al suo illusorio punto di fuga e condizione di leggibilità, al suo non naturale centro prospettico. Il centro è un miraggio oppure un fantasma, è un vuoto indecifrabile, caotico. Su di esso si fonda un gioco di specchi, un falso movimento di colori e forme che concrescono e si sovrappongono, che palpitano e si spengono, di figure in azione nel nulla.
"Apprendista" è colui che si protende a prendere, che si impegna a costruire afferrando, a far proprio un disegno lungamente inseguito e meticolosamente ricomposto nel corso del tempo. Questo è ciò che si intende per formazione, per apprendimento. Ma "apprendere" il sogno significa muoversi a ritroso, votarsi all'inafferrabile, procedere lungo strade che non portano a nulla, che non recano meta, tortuosamente parallele alle piste del divenire, del tempo storico. I venti racconti (e cioè le venti figure) che compongono il libro inseguono tutti un'ossessione: il sogno di una fantasmatica biografia del tempo.
Trattare il tempo come un personaggio, o meglio come l'unico personaggio degno della scrittura (o della parola tramandata), è poi il senso della costruzione epica. Mi pare che questa vocazione epica (da intendersi alla lettera, come voce che chiama all'azione) spieghi perché l'autrice comincia il libro nel punto esatto in cui decide di abbandonare il progetto autobiografico, o ritrova il sonno appena smette di inseguire i frammenti delle cose vissute. "Decisi di bruciare le patite carte (...) Nessuna voce più mi chiamò nel sonno. Alle letture delle autobiografie cominciai a preferire lo studio dei grandi romanzi, dove l'io è insincero, stratificato nelle proprie finzioni e insospettabile quanto un egli o ella, lui o lei". L'insincerità letteraria dell'io si pone come condizione di uno sprofondamento necessario, è la forza che sfonda la quarta parete per inscenare una commedia borghese che ha sacrificato i personaggi e l'azione.
Di nessuna vita val la pena di scrivere, ma tutte le vite aspirano a essere mostrate, a essere "parlate".Si tratta, come si vede, di un'epica al femminile, per la quale è inutile cercare gesti assoluti, assalti eroici all'avversa fortuna. La guerra, anche quella ben viva e concreta di Bosnia, oppure quell'altra che neppure la traccia rovente fissata con il 1945 (data su cui aprono tre racconti di fila) ha potuto cauterizzare, è sempre giocata all'interno, dirottata su un terreno emotivo che non ha nulla di privato, che non concede nessuna effusione sentimentale. La virtù di ogni voce femminile narrante, di ogni donna che apprende il filo della parola come un sogno non suo, è il saper attendere nel vuoto, è l'accettare di vedere e d'essere vista in un tempo senza divenire, composto soltanto di scoperte senza futuro, di vividi "déjà vu". Ascoltiamo questa "Lettera da Persefone": "Per me cominciavi a esistere allora. Ma non mi avresti aspettata in eterno, mentre in eterno io aspettavo - non sapevo da dove - un segnale convenuto.Ero sola. Andai allo specchio e cominciai a struccarmi". Da sotto al trucco non appare affatto l'innocenza (perduta, mai esistita) del volto, ma la maschera vera: molto più forte e impenetrabile di quella che offriamo allo sguardo altrui.
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