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Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2016
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Niente gattini, stavolta.
Un celebre micio egizio rivive nell'east coast abruzzese. Un'opera dura e grandissima.
In copertina un cane in maglietta sorseggia sorridente un drink all'entrata di un bar. Uno pensa: ah, qui mi sa che c'è aria di storiella simpatica. E poi il cane c'ha gli occhi a stella: sarà mica uno di quegli eccentrici volumi illustrati che da qualche anno affollano gli scaffali delle librerie per l'infanzia?
E invece no. Dire che la copertina è fuorviante è il classico eufemismo, ma in fondo sarebbe anche una puntualizzazione imprecisa, se non scorretta tout-court: Anubi è sul serio un libro capace di strappare sorrisi e sghignazzi, solo che sono sorrisi e sghignazzi che certo non trovi in qualche ipotetica versione apocfrifo-smitizzante della Pimpa. Oddio, ho scelto l'esempio sbagliato (se lo leggete, scoprirete perché), ma insomma ci siamo capiti.
Innanzitutto, un po' di precisazioni: quello non è un cane, è uno sciacallo. Anzi, è un dio-sciacallo; lo dice il titolo: il tizio col drink in mano è Anubi, il dio dell'oltretomba egizio, quello che (copio da Wikipedia) “proteggeva le necropoli e il mondo dei morti”. Ma sono lontani i tempi in cui dinanzi a lui si prostravano adoranti i faraoni: adesso Anubi al posto delle piramidi frequenta un'anonima cittadina di mare popolata da sbandati di tutti i tipi, beve Campari, è perennemente a corto di denaro, e intanto il suo ex collega Horus passa da un centro d'igiene mentale all'altro. Addio giorni di gloria: il presente non ha più tempo per gli dei di una volta.
Messa così, sembra una cosa alla American Gods. Solo che invece che in America eccoci nella provincia italiana, e per la precisione – pare di capire, vista la provenienza dei due autori – in quel “territorio decadente e interminabile di città diffusa e senza qualità” che, per dirla con Valerio Bindi, è la East Coast abruzzese. Potrebbe essere la Pescara che già ospitò Andrea Pazienza, o la Vasto di un tipo come Ratigher: due nomi che inevitabilmente, a leggere Anubi, tornano alla memoria per quel misto di cinismo di periferia e surrealtà borderline che è una delle cifre della coppia Angelini & Taddei. E sì, c'è qualcosa di Pompeo in queste pagine tossiche, c'è un'eco dell'autore di Le ragazzine stanno perdendo il controllo nella descrizione dei marginali e degli irregolari, ma sono paragoni che davvero lasciano il tempo che trovano: perché Anubi è, molto semplicemente, una delle opere più personali, potenti, finanche dolorose del nuovo fumetto italiano.
La claustrofobica provincia in cui si muove Anubi non è solo un posto ostile, dove basta girare senza macchina per essere additati come “sospetti”: è più una discarica umorale impregnata di una violenza latente, di pregiudizi rabbiosi, di vite che sono sempre doppie e triple; in un contesto del genere, il dio-sciacallo non è semplicemente un diverso, uno che per cercare riparo dalle attenzioni altrui è costretto a rifugiarsi al supermercato: è un'inaccettabile aberrazione, un ex eroinomane con la faccia da cane e dalle fattezze stilizzate e monodimensionali, uno scarabocchio più che un personaggio. I suoi unici amici, se ha senso definirli tali, sono “scrocconi, mosche da bar, avventori, nullafacenti, molesti, perdigiorno, rammolliti, piattole”: un clown nazista, un uomo dal volto sfigurato dal cancro, un William Burroughs reso incredibilmente longevo dall'abuso di droghe, delle suore perfide e laide, “i tossichetti” fratelli minori di quelli già “morti suicidi o finiti in galera”; e poi c'è Enrico, altro dropout con la scimmia sulla schiena, unica presenza fraterna in questo circo abitato da esseri spregevoli e disperati.
Che è poi, l'avrete capito, un circo fin troppo familiare: l'agghiacciante sequenza in cui Anubi e i suoi compari brindano ai metodi più efficaci per fare una strage in città, è un delirio disturbante sia perché va avanti per pagine intere, sia perché ritratto di un'umanità preoccupantemente banale; la mano di Angelini la dipinge con tratti asciutti ma grossolani, sottilmente mostruosi: ma è una mostruosità squallida, ordinaria, brutta più che terrificante. E per i disegni di Angelini, Taddei compone una partitura di commosso distacco: in questa storia di miseria, degrado, emarginazione, malattia e disagio, mai un momento di autocompiacimento, mai una tentazione melò. Solo un rimpianto disilluso e spietato, quel tipo di coinvolgimento sincero ma rassegnato che riservi alle cose che sai che non potranno andare bene mai. A meno di proiezioni oniriche e apocalissi (nel senso di rivelazioni) extramondane: e in Anubi c'è anche quello. Dopotutto, stiamo pur sempre parlando di un dio egizio.
Parafrasando una delle precedenti creazioni della coppia, Anubi è una storia lunga (320 pagine) e senza pietà: un capolavoro.
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