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Esce, come sempre dal Mulino, il nuovo diario di Giovanni Ansaldo (1895-1969); si tratta del quarto volume, dopo L'antifascista riluttante. 1926-27 (1992), Il giornalista di Ciano. 1932-43 (2000) e i Diari di prigionia. 1944-45 (1993). Ma il diarismo ininterrotto di Ansaldo ha ancora inedita la sua conclusione (il periodo napoletano da direttore del "Mattino", 1950-65) e il suo esordio: il tempo di fiera battaglia antifascista degli anni venti (di cui qui si dà un saggio per cortesia del figlio di Ansaldo).
Gli Anni freddi sono il diario di un uomo sconfitto, ma di successo, uno dei tanti paradossi così frequenti nella vita di Ansaldo. Ansaldo, scrittore-ombra di Ciano e voce radiofonica del regime, torna in Italia dopo una rischiosa reclusione in un lager tedesco, ed è sotto processo, ma nel suo ritiro vicino Pescia è fittissima l'apparizione di editori e direttori per assicurarsi la sua collaborazione: Garzanti, per cui lavora all'"Illustrazione italiana", Benedetti e Angiolillo che lo catturano per l'"Europeo" e "Il tempo", ma soprattutto Longanesi, che in quegli anni pubblicherà gli unici tre libri deliberatamente scritti da Ansaldo: il "galateo" del Vero signore, l'estrosa propedeutica non scolastica Latinorum, la biografia Giolitti ministro della buonavita. Tale grande richiesta si giustifica come arruolamento intellettuale, nella meno frequentata zona moderata, anticomunista quanto anticonformista, ma anche segnala l'indiscussa qualità di Ansaldo scrittore. Longanesi è forse l'interlocutore prediletto, con tante citazioni, in omaggio alla sua sempre pungentissima battuta ("Chi si firma è perduto", "De Gasperi è un Atlante che regge un vaso di merda"), ma il bello di questo diario sta nella capacità di concertazione di voci. Un po' come Machiavelli a San Casciano, ad Ansaldo non spiace "ingaglioffirsi" con gli umili e le loro "sciagure", registra il vario chiacchiericcio plebeo degli utenti ferroviari, nelle lunghe tratte dei suoi viaggi, incolla nel diario lettere di interlocutori, ritagli di giornale, fa sentire gli altri, da Malaparte al giovanissimo Spadolini.
Emerge un vastissimo affresco, dove la vivace pratica e progettualità dello scrittore si intreccia con lo scacco e la nostalgia del politico, che non si pente del fascismo ed esprime apertamente nostalgia di "lui", fino a giungere a sognarlo, di bianco vestito. Ma il sogno è proprio la sostanza di "lui", tanto più che - per Ansaldo - il fascismo fu soprattutto "illusione" di un prestigio internazionale dell'Italia, rinata con il Risorgimento. Invece l'Italia neorepubblicana "ridiventa il paese del municipalismo, del federalismo, del Papa", quindi con un basso profilo, comunque ottima fonte per il suo sarcasmo o il suo tratto malpensante. Ne sono prova i vari ritratti di "uomini visti", quanto mai antiagiografici (il vecchio socialista Canepa, Paolo Rossi, futuro giudice costituzionale) e anche le battute fulminanti come per Pio XII, "un vero papa cinematografico, sempre in posa" o la "povera cutrettola" della duchessa di Windsor.
Sul vario circo umano, dove è anche Ansaldo, domina la signoria di una prosa caustica e temprata da amarezza e irrisione, mai prosa d'arte, perché innervata su uno spirito quanto mai spietato d'analisi (le pagine sull'adulterio degli occhi). Un grande scrittore, come qui in lettera gli dichiara Comisso, e ora recuperabile non solo alla memoria storica, ma anche a quella letteraria del Novecento.
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