"Ciò che rende un'anima forte, è un'altera e coraggiosa passione che la domini": intorno a questo aforisma, tra i più enigmatici e fuggenti di Vauvenargues, Jean Giono scrisse nel 1950 uno dei suoi romanzi più celebrati, che racconta una storia di amore e odio, di orgoglio e libertà, la cui prosa respira al ritmo delle grandi narrazioni di Balzac, di Melville, di Dostoevskij. Rimasto inspiegabilmente a lungo inedito in Italia, Le anime forti si può ora leggere nella traduzione curata da Riccardo Fedriga per Neri Pozza. Dopo aver raggiunto il successo raccontando, nei romanzi della trilogia di Pan (1929-1930), la natura della Provenza, Giono era, all'inizio degli anni quaranta, in cerca di nuovi orizzonti, di nuovi modelli. A condurlo verso altre strade fu un evento drammatico, alla fine della guerra. Nel 1944, lo scrittore venne arrestato con l'accusa di collaborazionismo e, seppure mai incriminato formalmente, fu rilasciato soltanto cinque mesi dopo. Nelle opere successive, il trauma di quell'esperienza si trovò rispecchiato in buie storie di violenza senza riscatto. Fu così per Un re senza distrazioni (1947; cfr. "L'Indice", 1997, n. 10), che lo riabilitò agli occhi del mondo letterario francese, e, tre anni più tardi, per Le anime forti: un titolo che inevitabilmente rimanda ad altre "anime", quelle "morte" di Nikolaj Gogol', e proprio nella paronomasia tra i due aggettivi rivela indirettamente l'atmosfera lugubre del romanzo. La storia delle Anime forti si apre in un castello della provincia francese, nel 1949, durante una veglia funebre, con un gruppo di domestiche in preghiera intorno al cadavere del padrone, appena mancato. Per passare il tempo ed esorcizzare la morte, le donne iniziano a cicalare: così del resto, se si crede a Benjamin, sarebbe iniziata l'arte del racconto. La più anziana tra loro, Thérèse, riporta le amiche, per l'ennesima volta, tra i meandri della sua vita movimentata: la sua voce sciaborda come un fiume in piena, ma le altre ora la interrompono, ora le domandano, ora la contraddicono, e il racconto riparte ogni volta in un momento diverso, oppure riferisce nuove versioni di quanto già detto in precedenza. Difficile dunque risalire alla verità. Di certo, quasi settant'anni prima, nel 1882, Thérèse si era innamorata di Firmin, un maniscalco poco sagace, ma gentile, e con lui era scappata a Châtillon, un paese dei dintorni, addormentato nella noia della provincia. Senza un soldo, la coppia visse per qualche mese di espedienti, arrabattandosi come poteva. Thérèse prese servizio in una locanda, e qui scoprì di possedere una dote che avrebbe potuto garantirle una vita migliore. Benché in apparenza docile e remissiva, infatti, sapeva istintivamente come manipolare gli uomini e le donne. "Non prendeva forza dalla virtù − scrive Giono, − la ragione non le serviva a nulla; non sapeva neppure cosa fosse; era chiaroveggente ma per il suo sogno, non per la realtà. La forza della sua anima era data dal fatto che aveva trovato una volta per tutte un cammino da seguire". Thérèse era un'anima forte, ma non l'unica in paese. Un'altra, se possibile ancora più votata al sogno, ancora più ossessiva, ancora più bisognosa di misurare se stessa entrando nella vita degli altri per dominarla, era Sylvie Numance, borghese ricca ed elegante, che da tempo stupiva Châtillon con gesti di generosità inattesa. Thérèse ammirava la sua vita, o la invidiava, o forse le invidiava proprio il fatto di non poter trattenersi dall'ammirarla: decise dunque che i vestiti, la ricchezza, la vita di lei sarebbero stati anche i suoi, e mise la sua arte di manipolazione al servizio di questo scopo. D'altra parte, Sylvie si accorse della devozione che segretamente le portava la ragazza e, lusingata da quel sentimento, prese a proteggerla per dimostrare al paese di essere l'unica ragione della sua felicità. Tra le due donne nacque così una relazione pericolosa, che crebbe fino a che Sylvie non cominciò a trattare Thérèse come una figlia. A scompaginare il gioco, interverrà allora la sciocca avidità di Firmin, che accenderà, dentro Thérèse, un'irreprimibile sete di vendetta: "Ero felice di essere una trappola. Di avere denti capaci di far sanguinare; e di sentire il lamento dei conigli senza che nessuno sospettasse di me". Un sentimento dura finché ci resta nell'altro qualcosa da invidiare, scrisse una volta La Rochefoucauld. La passione che domina le "anime forti" di Giono si misura nell'istinto animalesco che le porta a fronteggiare la felicità degli altri, fino a domarla, fino a prosciugarla, per appropriarsi di quanto a loro sarebbe altrimenti precluso. Narrazione corale, che sprofonda nell'incertezza la realtà degli accadimenti, Le anime forti racconta la metamorfosi di una ragazza che scopre di essere una "trappola" vivente, un'esca in forma di donna, che attira a sé le vite delle persone che la circondano e le muta in altrettanti destini di infelicità. Intorno a questa "trappola", Giono costruisce il centro propulsivo di un romanzo che avviluppa nella propria trama tanto i personaggi quanto i lettori, calandoli in una spirale di sopraffazione inesorabile e irredimibile. "Mi impegnai molto per imparare a odiare con il sorriso", si sarebbe scoperta a pensare Thérèse, durante un attimo di quiete nel mezzo di questo vortice, stupendosi della sua stessa crudeltà, "E, cosa molto più importante: imparai a fare esattamente il contrario di quel che il mio cuore mi chiedeva di fare". Luigi Marfè
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