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Va di moda scrivere, o tentare di scrivere, gialli: anche tra poeti, narratori, critici, editori, traduttori, giornalisti che evidentemente sperano di rimpinguare in tal modo gli scarsi diritti d'autore ricavati dalle loro produzioni maggiori. E non sono i soli a cimentarsi in questa redditizia attività letteraria, perché (ahinoi!) dobbiamo sorbirci anche improvvisati giallisti tra giudici, avvocati, poliziotti, militari, criminologi: tutti rispettabili professionisti avvezzi a trattare cose crudeli e nefande, ma che purtroppo non hanno la penna di Gadda. E così anche un letterato pregevole e coltissimo come Silvio Raffo ha deciso di mettersi alla prova con il noir e la suspense, volteggiando vaporosamente tra assassini/e, trame intricate, progetti diabolici. Il risultato? Abbastanza deludente, per un grecista, abile versificatore ed egregio traduttore della sua fama: short stories in bilico tra atmosfere goticheggianti e perversioni mentali, truculenze sanguinarie e sospirosi abbandoni, infanzie violate e matrimoni farisaici, aplomb britannici e suggestioni orientali: tutto raccontato "con esitazione", come suggerisce la quarta di copertina, vale a dire forse con leggiadra sensibilità voyeuristica, o più probabilmente con scarsa convinzione (e scarso rigore lessicale, talvolta): ripetizioni, scelte stilistiche banali, e assoluta incapacità di provocare qualsiasi brivido in chi legge. "Il suo enorme corpo da lottatrice si installò rumorosamente ma con una certa qual elefantesca dignità nell'alveo del sordido cunicolo liquescente"; "In bocca ho un sapore amaro, come se avessi trangugiato dello sciroppo alla lumaca..."; "i lampi dei suoi occhi erano sempre più guizzanti". Raffo sembra non crederci troppo, nelle sue storie, di conseguenza non riesce a trattarle con la lievità e l'ironia che tali finzioni letterarie esigerebbero.
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