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Nell'aula-bunker di Palermo in cui si celebra il processo Andreotti si va raccontando la vera storia d'Italia? È, questa storia, fatta essenzialmente di complotti, assassinii, trame, complicità del potere legale con quello illegale della mafia? Davvero la vicenda di questa nostra Repubblica si compone tutta di una materia sfuggente, sotterranea e fangosa, che sommerge e vanifica il piano ufficiale, visibile, sul quale tutti abbiamo pensato di confrontarci, di accordarci o di scontrarci? L'«età di Andreotti», 1970-1990, è la fase in cui il piano sotterraneo e quello visibile della storia italiana più si avvicinano, fino a toccarsi. Ma tutto ciò non può indurci a cancellare l'asimmetria del rapporto tra sovramondo e sottomondo, tra potere ufficiale e potere criminale; asimmetria che percepiamo nei racconti dei pentiti, così semplicistici e ingannevolmente lineari, e nelle giustificazioni dei politici, così tese a proiettare lontano da sé - nel commercio della droga, nelle trame internazionali, nell'intrigo dei servizi segreti - le responsabilità delle peggiori degenerazioni. I paradossi del processo stanno tutti nel confronto tra questi due punti di vista, concettualmente diversi e lontani, che le vicende della nostra storia hanno reso di fatto così sorprendentemente vicini. Allo storico, all'analista politico, al cittadino comune non è richiesto di giudicare, di condannare o assolvere. Egli deve piuttosto cercare di comprendere, chiedendosi come la crisi del sistema politico italiano abbia potuto generare tali mostri: senza ricorrere alla categoria del «Supercomplotto», o ad altre simili pseudo-spiegazioni, che rappresentano in realtà una rinuncia a ragionare. La vera storia d'Italia passa anche per l'aula del processo Andreotti, ma - per disgrazia o per fortuna - non si ferma lì.
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