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Per cominciare ad apprezzare scrittori sconosciuti e perle della letteratura americana
Più che schede, come le definisce l'autore (troppo modesto, mi pare), direi che i profili di Briasco sono analisi perspicue dei libri più importanti della letteratura americana degli ultimi cinquant'anni anni. Ne vien fuori, alla fine, un ritratto dell'America. Il dono della brevità e la finezza dell'analisi sono, del resto, le doti del vero critico. Molto piacevole.
Uno di quei libri che vi riempiono la vita. Anche in senso letterale, perché propone così tante letture (selezionate e suddivise per stili e autori) che non basterebbe una vita (forse) per completarle tutte. E lo fa con una chiarezza e un entusiasmo, con un ordine (giustamente schematico) a cui si somma un'ampiezza di analisi e interconnessioni che già di per sé illuminano i pensieri e rinverdiscono la voglia di letteratura.
Recensioni
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Se possiamo emozionarci con i film di Sam Mendes, davanti a scene come quella in cui Kevin Spacey fuma marijuana nel suo garage facendo pesi con la musica a tutto volume, o si masturba nel letto di notte mentre la moglie gli dorme accanto; se possiamo dirci distratti, sì, oggi più che mai, vittime del binge-watching, con i pannoloni per grandi, direbbe Aldo Nove, per non perderci neanche un istante di Stranger Things o True Detective, è perché un po’ di tempo fa, non tanto a pensarci bene, sono venuti alla luce romanzi, racconti, storie come quelle scritte da Richard Yates, John Barth, Don DeLillo, Kurt Vonnegut, Raymond Carver, Philip K. Dick, Stephen King, Philip Roth, David Foster Wallace.
Alcuni di questi famosissimi, chi per una fine tragica, chi per non aver ancora vinto il Nobel o per aver dato vita a un pagliaccio che ha tormentato intere generazioni. Autori citati, magari, e mai letti, che nel tempo si sono aggiudicati il premio “i più cliccati su wikiquote”. Ma come dare ordine a tutto questo? Come metterli insieme, uno dietro l’altro, per farne un mondo, da girare con una mappa per orientarsi e capire come siamo arrivati fin qui? Ci ha pensato Luca Briasco con il suo Americana, pubblicato da minimum fax, riprendendo il titolo di un’antologia di autori americani (dai primi dell’Ottocento fino agli anni Trenta) curata da Elio Vittorini e pubblicata nel ’42, in un’epoca nera della storia mondiale. Un saggio narrativo, quello di Briasco, o meglio una raccolta di saggi, lontana dalle forme accademiche e specialistiche, tutta dalla parte del lettore: «se chi leggerà Americana si scoprirà invogliato ad andare in libreria e comprare una qualsiasi delle opere che ho tentato di analizzare, lo scopo che mi sono prefissato sarà stato raggiunto». La scrittura, la lettura, la letteratura, la cultura in generale come possibilità, come passaparola, come condivisione, come rapporto umano, finalmente.
Nell'introduzione, dove si parla di status author (come Michael Chabon) e di contract author (chi, come Jonathan Franzen, si pone al confine tra le proprie esigenze espressive e quelle del pubblico e dei suoi “orizzonti d’attesa”), Briasco si concede un piccolo ritratto di Wallace anche attraverso le sue parole e quelle di DeLillo, Franzen, Saunders, venute dopo quel maledetto 12 settembre 2008 in cui lo scrittore si è tolto la vita. Da qui si passa a una serie di campi ideali, sei per la precisione (postmoderno, realismo/minimalismo, più generi in uno, grandi sintesi, l’avanguardia, l’eredità del realismo), per arrivare a un’unica grande domanda, che riguarda autori più giovani, tra gli altri Foer e Lethem: esiste un nuovo canone? Una risposta definitiva, per fortuna, ancora non c’è.
Per ogni autore, Briasco sceglie un romanzo, una o più raccolte di racconti o di romanzi anche (pensando alla Trilogia di Paul Auster), che possano rappresentarlo. Vonnegut, che occupa una delle stanze del postmoderno, con il suo Mattatoio n. 5, con quella «dolcezza svagata», quel «sorriso mai sardonico con il quale rivela gli orrori del mondo» (in questo caso il bombardamento di Dresda). Carver “minimalista”, con i racconti di Cattedrale e Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, con la sua America, simile a quella che si vede nei quadri di Hopper, desolata, disillusa, profondamente disperata. I racconti di George Saunders, crudeli, sì, dove però non manca mai la pietà, e quel non detto di cui parlava Hemingway nella metafora dell’iceberg (scrivere solo «lo stretto indispensabile», al resto penserà il lettore). Pastorale americana di Roth, un «romanzo-famiglia» capace di raccontare gli anni Sessanta fino al «naufragio del nixonismo». It, in cui il male non è solo nei panni e nelle sembianze del clown Pennywise, ma è qualcosa di più complesso, sedimentato nella società americana, negli individui che le danno forma, tanto da smentire finalmente maldicenze e pregiudizi su Stephen King: non più un autore di serie b, da ombrellone, ma uno che merita un posto in prima fila nell’olimpo dei grandi. Wallace, il suo Infinite Jest, enciclopedico, sempre oscillante tra l’alto e il basso, tra la felicità e la tristezza, tra i classici e la cultura pop, con un’infinità di trame, divagazioni, riflessioni, capaci di lasciare lettori (e colleghi) «sull’orlo delle lacrime», di parlare a nome di tutti quelli che un giorno, per caso, hanno sentito davvero il bisogno di scrivere: «Credo che tutta la scrittura di qualità affronti, in un modo o nell’altro, il problema della solitudine, proponendosi come antidoto a essa. Siamo tutti terribilmente soli».
Giorgio Biferali
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