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Solitamente si è portati a credere che Verità e Menzogna siano due opposti, due termini che si fronteggiano e che, per qualche motivo recondito, il soggetto sia chiamato, in coscienza, a protendere quanto più possibile verso il primo. A ben vedere, però, la questione è molto più complessa, giacché sul piano ci sono non solo motivazioni morali, ma anche epistemologiche, antropologiche, cognitive che fanno sì che a fronte di una versione, quella che potrebbe essere la Verità, qualora gli strumenti in campo permettessero di raggiungerla, c'è una miriade di varianti, tutte più o meno probabili sul piano logico, ma certamente possibili sul piano argomentativo e reali su quello performativo. Ciò che le menzogne e le varie narrazioni falsificatrici producono di volta in volta entra a far parte integrante del bagaglio esistenziale, antropologico e scientifico della nostra cultura individuale e collettiva. La questione relativa al «dire la verità», dunque, prima che essere un dovere morale kantianamente inteso, va indagata a partire dalla possibilità strutturale e cognitiva che il soggetto ha di poter raggiungere qualcosa che sia definibile come Verità, nonché dalla capacità che ha di comunicarla e, infine, dall'analisi delle conseguenze che tale narrazione potrebbe ingenerare negli altri. Solo dopo essersi opportunamente districati tra queste non facili problematiche, il soggetto può scegliere se dire la Verità oppure narrare una menzogna e, per evitare di ricadere in una troppo abusata e sterile afasia, deve fare appello alla propria responsabilità ed esser sempre pronto ad aver qualcosa da raccontare.
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