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recensione di Bertini, M., L'Indice 1997, n. 7
Questo piccolo libro - di una densità inconsueta, emozionante - ha in qualche modo due facce: l'una rivolta al passato, a quelle consolidate eredità nazionali di cui siamo soliti dare per scontata la familiarissima fisionomia, e l'altra rivolta invece al mutevole e anarchico presente, che la tenue linea di confine con l'incerto futuro trasforma nel più insidioso e mal noto dei territori misurabili.
Claudio Gorlier, cui è affidato il compito di confrontarsi con il presente, sceglie come campione significativo l'accidentato panorama delle letterature postcoloniali. È alla conquista di identità problematiche e tormentate, nate all'insegna dell'incrocio e del "métissage", che muovono le giovani letterature emergenti dalla dissoluzione dei grandi imperi coloniali del passato: identità fluide, autoriflessive, spesso autoironiche, grazie alle quali il concetto stesso di identità sostanziale e monolitica conosce un definitivo tramonto. Tramonto già scritto, d'altronde, nei suoi passati e discutibili splendori: è quanto mette in luce, con coerenza implacabile, lo splendido saggio di Francesco Orlando, focalizzato soprattutto sulla letteratura e sulla musica dell'Ottocento, ma ricco di conseguenze di portata ben più generale.
Orlando prende le mosse da un'identità nazionale delle più definite, orgogliose e apparentemente autosufficienti: quella francese. Un'identità così compresa del proprio gusto esemplare e canonico da sottoporre a un vaglio severo ogni apporto culturale estraneo: dal genio di Shakespeare, accettato con ritardo e con infinite restrizioni, a quello di Goethe, bisognoso della mediazione di Madame de Staël, a quello di Dostoevskij, opportunamente edulcorato dal benemerito Melchior de Vogüé.
Ognuna di queste assimilazioni pare segnare una trionfale autoaffermazione della "grandeur" francese, capace di appropriarsi i tesori altrui mantenendo immutata la propria essenza: ma in realtà, senza il confronto con il mondo esterno, quell'"essenza" nemmeno sarebbe in grado di definire se stessa, di darsi una fisionomia e una visibilità. Essa, come tutte le identità nazionali, non esiste che in un più vasto sistema di differenze e di limiti. Lungi dall'essere un'intangibile sostanza sempre eguale a se stessa, solida come una roccia, è una sorta di plastica nebulosa in perenne divenire, sui cui interni processi mille influenze esterne incidono in modo determinante.
Tra queste influenze, sguardi e saperi "altrui" svolgono un ruolo di primaria importanza, come mette in luce anche l'intervento di Cusatelli sull'interazione identità francese - identità tedesca nel XIX secolo. In quest'ottica acquistano coerenza e significato scelte e fenomeni che altrimenti potrebbero parere indecifrabili. Comprendiamo così perché lo sguardo estraneo dei due viaggiatori delle "Lettere persiane" colga la realtà francese meglio dello sguardo dei nativi, e perché i nativi dal contatto con l'estraneo imparino a meglio conoscere la realtà stessa in cui vivono. Le vie dell'interno passano dal di fuori: Debussy crederà di rinnovare la musica francese rifacendosi all'intatta purezza di una tradizione autoctona, e invece la rinnoverà mutuando, inconsapevolmente, elementi del linguaggio wagneriano.
Lo stesso Wagner, d'altronde, nei suoi aspetti innovativi, è ben più apparentato a quella modernità cosmopolita, da lui ideologicamente rifiutata in nome di principi nazionalistici, che non alle mitiche tradizioni germaniche cui si rifà esplicitamente. Stendhal esprime la quintessenza della vita romana meglio di ogni suo contemporaneo italiano; il polacco Joseph Conrad darà voce autentica alle più tragiche ambiguità dell'impero britannico; l'ebreo Heine nella sua ballata sulla "Lorelei" fornirà una così suggestiva e mirabile interpretazione del folclore germanico, da costringere più tardi i burocrati nazisti ad appropriarsela, attribuendola a un anonimo cantore popolare. Crocevia e non più roccaforte, ogni identità nazionale svela così se stessa come un nodo complesso di problemi, di suggestioni, di voci; nel caotico crogiuolo del mondo odierno, certo, ma anche nel più vasto e istruttivo paesaggio della storia passata.
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