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Anno edizione: 2014
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Anno edizione: 2019
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La sostanza della sua religiosità che ha accolto in sé la conclusione ulteriore (dopo Nietzsche con la “morte di Dio”, la parentesi heideggeriana e le incursioni nell’esistenzialismo di Kierkegaard) che “la morte è Dio”, per il fatto che Gesù stesso ha avuto bisogno di morire per compiere il disegno divino, ritorna infine all’asse portante di tutto il sistema: all’amore, fondamento e nòcciolo essenziale del corpo del Vangelo e, derivato immediatamente dalla sua natura, al rifiuto di ogni declinazione mondana della religione: «Sull’Amore non è possibile fondare nessuna costituzione». L’amore evangelico è al di là di ogni potere, la sua gloria appartiene al Regno celeste, è di una perfetta bellezza: e qui l’intuizione di Muschg si riapprossima a Leopardi, a quel Gesù come innovazione rispetto al passato ebraico e della tradizione classica, pur nascendo, come si è visto, il suo urlo formulato da una forza profonda, il suo essere capro espiatorio, da questo terreno antico, da questa saturazione di esperienza millenaria. Ma segnalando, facendoci percepire l’idea di mondo, e di rassegnazione, di silenzio che lo abitano. E di dolore per il male ineliminabile. Da questa vivace essenziale discrepanza, di tratto in tratto la forza poetica della scrittura di Muschg: di un gallo che strappa l’aria con il suo risplendente canto.
Una posizione moderna proprio perché, arrivando al suo nucleo originario, clandestina, e antimondana se letta in chiave leopardiana, vale a dire secondo quel Leopardi che aveva indicato nell’uomo nato dopo Cristo, nell’uomo interiore, separato dall’uomo naturale, il primo barlume di uomo moderno. E come si è detto fra le righe, Muschg supera la rassegnazione implicita nel male, poco evidente induttiva frammentaria proprio a causa del suo mistero, poco percepibile, e segregata nel mutismo delle cose e delle persone, vincendo l’orrore sospeso e drammatico del vuoto di Dio che ha caratterizzato, in una singolare tenzone, fino al centro del centro la filosofia della fine dell’Ottocento e di gran parte del Novecento.
In un libro biografico dedicato a Gottfried Keller, una quarantina d’anni avanti, siamo nel 1977, Muschg concludeva il suo lungo discorso, molto meditato e perfettamente messo a punto, con queste due esplicite frasi, intinte di letteratura e speranza: “La rassegnazione è muta solo per colui che non sappia più percepire la voce della poesia. Essa è una continua persuasione a vivere”. E devono essere lette in coppia con una sua dichiarazione (durante un’intervista) del 1970: “Ciò che oggi mi stimola a scrivere è una discrepanza: fra il muto silenzio che mi viene incontro lungo la strada (nei gesti, negli atteggiamenti delle persone, e anche negli oggetti, in particolare nelle merci) e il mio bisogno di saperne di più, di operare associazioni... ”. Saper percepire il silenzio e renderlo parlante, percepibile agli altri (e con esso, si può presumere, pure la rassegnazione muta) è da sempre l’autentica motivazione dello scrittore. La scrittura è allora, lungi dal diventare una sfuriata di acerbe parole, l’inventario della vita silente (Bestandesaufnahme der Stummheit), la ridda delle immagini senza voce, interiori, e ad un tempo il tentativo di renderla percepibile, insomma il superamento di quella sua stessa silenziosità e rassegnazione. Ha in sé una funzione salvifica. Ci mostra l’esistente nella sua luce giusta. Ama il lato impossibile, negativo, privo di parole, vicino al non essere dell’uomo. La posizione poetica e religiosa dello scrittore svizzero Adolf Muschg, lo avvicina, tramite un punto di consonanza profonda, spirituale, al filosofo Piero Martinetti (per alcuni lati a lui affine) che vedeva “l’originalità di Gesù nel rifiuto della lettera e del potere, nella sua opera di rifondazione dell’uomo religioso secondo l’interiorità e la fede e non secondo il contratto e la garanzia della Legge” (Luigi Baldacci).
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