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Anno edizione: 2015
Anno edizione: 2015
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È ricco di suggestioni letterarie e cinematografiche, il romanzo In cerca di M. di Doron Rabinovici, scrittore nato a Tel Aviva ma residente a Vienna. Ad iniziare dal titolo che ci ricorda il famoso film del 1931 diretto da Fritz Lang, “M- Il mostro di Düsseldorf” (il titolo originale però era “M. Una città in cerca di un assassino”), oltre a farci pensare a Becket (il nome dei suoi protagonisti inizia per M, lettera centrale dell’alfabeto) e a Kafka, e si può continuare alludendo alla figura del Golem e alle trasformazioni e le volgarizzazioni che questo personaggio ha subito.
Al di là di tutto questo, però, la trama, spogliandola fino alla sua essenza, è semplicissima: c’è un assassino che attende donne sole per strangolarle e violentarle nelle strade buie di Vienna.
Un misterioso personaggio che si firma Mullemann (uomo bendato) rivendica puntualmente i delitti e anticipa quelli che seguiranno, come fosse un veggente o fosse in grado di leggere nella mente dello sconosciuto assassino.
La storia procede a sbalzi, per episodi che sembrano slegati finché non si capisce quale è il filo che li connette. All’inizio del libro vengono introdotti due bambini, che saranno poi i protagonisti del libro. Dani Morgenthau e Arieh Scheinowiz sono entrambi figli di sopravvissuti alla Shoah. Sono figli del silenzio perché i loro genitori non vogliono ricordare, eppure ogni loro comportamento ricorda l’orrore dei campi di concentramento.
È lo stesso silenzio dell’Austria (grande accusata nel romanzo di Rabinovici) che ha insabbiato il passato con le colpe mai riconosciute. La reazione singolare di questi due rappresentanti della seconda generazione al trauma vissuto dai genitori è in qualche maniera simile. Dani Morgenthau si addossa tutte le colpe del mondo, lo ha sempre fatto fin da quando era un ragazzino che si dichiarava colpevole delle malefatte compiute da compagni di scuola.
Dani è il misterioso Mullemann che si avvolge con bende per proteggere una malattia psicosomatica della pelle, una sorta di fantastico Golem capace di prevedere i delitti oltre che pronto ad assumersi la colpa. Arieh ha una abilità che assomiglia a quella di Dani, per cui verrà ingaggiato dai servizi segreti israeliani. Arieh fiuta i colpevoli, riesce a dar loro la caccia pur non conoscendoli. Un impulso segreto dentro di lui lo spinge a rendersi somigliante al criminale che sta inseguendo, a comportarsi come lui.
A questo punto il romanzo diventa un gioco di specchi, una pirandelliana ricerca dell’identità dell’uno-nessuno-centomila, un inseguimento di un colpevole dalle molte facce che sembra trovarsi in parecchi luoghi simultaneamente.
Ogni personaggio ha più di un nome, ogni personaggio assomiglia a qualcun altro- nel passato della persecuzione nazista ci si poteva salvare la vita assumendo l’identità di un altro con un baratto mortale. E Mullemann assomiglia al mitico Ahasvero, l’ebreo errante, che è raffigurato in un dipinto contemporaneo esposto in una galleria, l’eterno colpevole condannato al nomadismo.
Il fardello del ricordo e il silenzio, la negazione e ancora il silenzio, il senso della colpa e l’innocenza, la ripercussione del passato sul presente: il lettore di Rabinovici deve addentrarsi in tutto questo in un romanzo per molti versi sconcertante (come è tutto quello che esce dagli ordinari binari), ricco di metafore e allusioni e significati nascosti, di frecce acuminate contro la società e l’ambiente culturale austriaco. Se Rabinovici voleva ottenere un effetto inquietante, ci è riuscito perfettamente: terminata la lettura ci sentiamo osservati, scrutati nel profondo e l’immagine di Mullemann, come un Lazzaro resuscitato, come una mummia destinata a durare per secoli, ci ossessiona costringendo anche noi a dire “Sono stato io”.
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