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Piacevole scoperta di un fine autore che racconta anni di un recente passato attraverso una personale lente analizzatrice senza compromessi e che sembra essere ormai lontano. Per chi ha vissuto quegli anni lontano dal centro degli avvenimenti ne acquista un arricchimento di conoscenza degli umori e del sentimento di quegli anni. Fluida la scrittura ne consegue un altrettanta piacevole lettura e desiderio di leggere anche altro dello stesso autore.
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È questo l'ultimo libro di Piergiorgio Bellocchio, il fondatore, nel 1962, dei "Quaderni Piacentini", che si provarono a coniugare "il lume della ragione con la pratica della contestazione", stando almeno alle parole di Cesare De Michelis, che lo stesso Bellocchio riporta nello scritto introduttivo, Essere o non essere cattivi. E appare nella collana "Poesia e Prosa", ora diretta da Alfonso Berardinelli. Bellocchio e Berardinelli, insomma: un sodalizio quasi leggendario e che mise capo, nel 1985, dopo la chiusura dei "Quaderni piacentini", a "Diario", la rivista interamente scritta a quattro mani, "totalmente autogestita e non profit", distribuita a pochi fedeli per abbonamento. Molti degli interventi di Bellocchio che in quella sede furono pubblicati nei primissimi anni novanta (e sino al '93), unitamente a un gruppo di articoli apparsi su "King" (tra il '94 e il '95) e alla prefazione (1999) per il "Meridiano" pasoliniano Saggi sulla politica e la società, vengono appunto raccolti in questo libro: che, nel suo italiano elegante e solido, di grande limpidezza intellettuale, sorprende quasi come fosse scritto ora. Diciamolo: fu un passaggio, quello dai "Quaderni" a "Diario", in direzione di ciò che mi piacerebbe chiamare il "disingaggio", laddove alle ragioni dell'ideologia si sostituivano definitivamente e senza ritorno quelle dell'individuo. E che, se trovò il consenso di Carlo Ginzburg e di Cesare Garboli, provocò però l'irritazione di antichi sodali come Franco Fortini e Cesare Cases.
Quanto a tale nozione di disingaggio, è bene, forse, che mi spieghi meglio. Dalla parte del torto (1989) si intitola uno dei libri più belli e più noti di Bellocchio, così come Chi perde ha sempre torto, dedicato al processo contro Lotta continua per l'omicidio Calabresi, rappresenta ora il cuore pulsante del volume Scheiwiller. Però bisogna intendersi subito su questo concetto: il torto di cui parla Bellocchio non è solo il punto d'arrivo di una vicenda esistenziale e storica che ha riguardato molti militanti della sinistra più o meno radicale italiana, quel risultato che non si può onestamente eludere, ma è anche ecco il punto decisivo una posizione per cui lo scrittore ha deciso di parteggiare. Scrive Bellocchio: "Il peggio non è la sconfitta: è la falsificazione della verità e la perdita della memoria imposte dal vincitore". In altre parole: Bellocchio non ha soltanto avuto torto, perché ha perso; ma, da un certo punto in poi, ha effettivamente e propriamente scelto d'aver torto. Anche nei confronti di chi, un tempo, gli combatteva accanto contro il sistema e che, oggi, si è integrato nella classe dirigente nazionale e, magari, gli rimprovera di non essere più il critico feroce e brillante dei "Quaderni" o, addirittura, di fare "oggettivamente", come si diceva una volta, il gioco della reazione.
Questo, dunque, il disingaggio: il totale svincolamento da ogni forma d'appartenenza, nonché da qualsiasi tipo di idea ricevuta. Sicché, si potrebbe dedurre, soltanto avendo torto si potrà sperare d'avere qualche volta ragione. Secondo una concezione di scrittura, mi verrebbe da aggiungere, intesa come il negativo del potere. Concezione al fondo anarchica, ma con un paradossale senso delle regole: e che in Italia, nel secondo Novecento, ha avuto come unici interpreti i pur molto diversi Sciascia e Pasolini. Con i quali condivide un'idea etica della felicità. Così, ricordando gli anni della militanza e dello scontro: "Eravamo più felici (o meno infelici), perché c'era un maggior accordo tra le nostre idee e i nostri comportamenti". Bellocchio, di suo, gioca d'understatement e mostra un sentimento di delusione che, però, non coincide con la disperazione antropologica di Pasolini, né con lo scetticismo metafisico di Sciascia, e che trova la sua definizione più chiara nell'articolo che dà il titolo al libro, dove lo scrittore si riconosce, di fronte alla catastrofe italiana, nella stessa "sfiducia e stanchezza", negli stessi "pessimismo e acciacchi" del vecchio e pur illuminista Bobbio.
Inutile dire che, alle spalle di Bellocchio, ci sta il grande capitolo novecentesco intitolabile "Psicologia delle masse e analisi dell'io", quello che muove dal dibattito tra Freud e Le Bon e che passa per Kraus, i francofortesi e tutto il marxismo critico, sino al nostro Fortini, ma corretto, non si sa come, dall'ironia e dall'empirismo della grande cultura inglese, innanzi tutto orwelliana. Chi la lavora, questa tradizione, è però uno scrittore amaro e esilarante, integralmente satirico, come l'Italia di oggi non ne ha, e che, muovendo dall'analisi del linguaggio e dei comportamenti, dai tic e dalle ossessioni ideologiche collettive, dai riti mondani e dalla comunicazione culturale, ha saputo restituirci una sua sociopatologia della vita quotidiana. Con Bellocchio, ve ne accorgerete leggendo, i benpensanti non possono star tranquilli nemmeno al ristorante. Massimo Onofri
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