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Ho cominciato a leggerlo ed ero scettico, perché la prima metà scorreva molto lentamente e la storia non mi prendeva. Poi nella parte conclusiva è riuscito a riprendersi e meritarsi la sufficienza, forse anche qualcosina di più. Mi sono piaciuti i temi e la storia, però potevano essere descritti meglio. Penso abbia molto margine di miglioramento e sicuramente comprerei un altro suo libro.
Bello, un bel libro, ha concatenato cultura, musica, arte, humor e sentimenti utilizzando le parole come piccoli diamanti. Libro molto diverso da quelli precedenti e quelli più recenti ma interessante ricco di spunti di ricerca e riflessione. Senza dubbio un grande autore.
ho sentimenti contrastanti su questo libro. da una parte si tratta di una buona narrativa media, "di costume" direi, non banale e con sguardi interessanti sulla provincia e su temi poco toccati dai nostri scrittori. dall´altra parte questo libro sconta forse la presenza di un centinaio di pagine di troppo, e (forse) Pallavicini é piú un "cronachista" che uno scrittore vero, a volte la scrittura manca di ispirazione e si accartoccia un pó su se stessa. detto questo, compito assolto oltre la sufficienza, e quindi tre punti su cinque
Recensioni
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Questo è un romanzo sgradevole; e meno male. In tempi di narrazioni nuovamente epiche o altro di fantasioso, ci vuole Piersandro Pallavicini, nato nel '62 a Vigevano, lettore di Houellecq, Easton Ellis e Mastronardi, per raccontare l'Italia meno attraente. African inferno parla infatti di italiani e africani, anzi di bianchi a contatto con neri. Uno pensa: roba da sociologi. Succede invece che Pallavicini sia di mestiere chimico (insegna e ricerca nell'Università di Pavia, da ragazzo ha vinto tutti i premi possibili e immaginabili, ora è un ricercatore tra i più affermati su piazza) e affronti l'argomento con il piglio saggiamente scettico dello scienziato.
Questo premesso, African inferno è un romanzo pop come non se ne leggeva da tempo in Italia. È vagamente pop la copertina coloratissima, dovuta all'artista congolese Chérie Cherin (pseudonimo gentile di Joseph Kinkonda); lo è la colonna sonora, fatta di musica africana scelta con grande competenza dall'autore; lo è, in definitiva, anche il titolo, che ricorda Disco inferno, successo della discomusic anni settanta, più volte ripreso e rielaborato fino a una recente versione di Madonna. La storia. Sandrone Farina, "semimpiegato comunale" a Pavia, è sposato con la figlia di un principe del foro locale. Con i soldi del suocero, conduce la vita agiata che ancora si può condurre nella profonda e piuttosto sconosciuta provincia del Nord. Adora la figlia Chiara di tre anni e si diverte a scrivere di enogastronomia. Il ritratto della normalità, non fosse che gli piace frequentare quelli che si chiamano "extracomunitari", e sono in realtà professionisti come e meglio di lui inseriti nel tessuto socioeconomico. Il suocero, l'avucàt Migliorati, non gradisce, il padrone di casa Pacifico Omodeo nemmeno e sono frequenti gli sbotti in un colorito dialetto pavese, usato qui come avrebbe potuto il quasi compaesano Carlo Alberto Pisani Dossi. C'è aria di rovina e la rovina accade, naturalmente per futili motivi. Una sbronza con l'estroso Joyce, congolese laureato, un accoppiamento furtivo, la ragazzina che confessa tutto al suocero giurista, quello che, con ragione, le crede e Sandrone si trova fuori di casa. Inizia la convivenza con Richard e Modestin, camerunensi con ottimi studi alle spalle, buon lavoro e, soprattutto, permesso di soggiorno in regola.
Qui sta la novità del lavoro di Pallavicini. Se pochi avevano finora affrontato la questione dei clandestini, di quelli che si guardano in televisione mentre sbarcano a Lampedusa, nessuno aveva parlato di quelli che in Italia hanno trovato il loro posto. Sandrone Farina inizia il curioso ménage à trois partendo da un rispetto che è quasi servile verso i due coinquilini. Poi anche quelli che lui stesso chiama "fratelli" hanno pregiudizi, emettono giudizi taglienti (memorabili i commenti sulla notizia in tivù dell'assassinio di Fabrizio Quattrocchi: "Ti hanno pagato per questo! Mercenario! Ti sta bene! Li hai voluti i soldi?"), passano le notti connessi a Internet con una connessione pagata dall'italiano. Accanto a costoro, una figura femminile di autentica dolcezza: la figlia Chiara, che è con ogni probabilità un ritratto di Francesca, figlia di Pallavicini e condedicataria del libro. Un'altra figura femminile di rilievo, anche se non sviluppata a sufficienza, è Jadore, sorella di uno degli amici neri e titolare di una "bellezza straziante" (così nel testo), davvero altra e inattingibile. Il risultato è una congerie di capitomboli di vita, letti con un punto di vista che oscilla fra il patetico e il grottesco, e sceneggiati con disinvoltura. Nel libro c'è sfoggio di dettagli e, alla maniera di certi scrittori americani giovani negli anni ottanta, una buona congerie di marchi. Oltre a questo, e in verità in primo piano, una visione da scienziato delle cose e del mondo. Pallavicini è, per mestiere, cartesiano; e, ancora per mestiere, provoca reazioni, non soltanto chimiche.
Uscito nel quasi silenzio della critica militante cosiddetta di sinistra, il romanzo è stato accolto dai consensi della parte presuntamente avversa, che ha letto volentieri e senza fraintendimenti il tono paradossale del racconto. È certo che, nel profluvio di narrazioni nella migliore delle ipotesi autoreferenziali, un libro che parli di una contemporaneità sgradevole può creare dubbi, ingenerare difficoltà di ordine tassonomico; in una comunità critica, poi, che stenta a riconoscere se stessa, figurarsi i lavori di cui si occupa. Alla fine, non vince nessuno, se non un il filo di speranza cui è intitolato il quadro di copertina (Espoir fait vivre, appunto). Oppure il vincitore è lui, Piersandro Pallavicini, che ha scritto il primo romanzo glocal della letteratura italiana recente. Da Pavia, Italia, a Yaoundé, Camerun, la vita si sconta vivendo, e non importa il colore della pelle.
Giovanni Choukhadarian
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