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Anno edizione: 2019
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Nata a Londra da padre italiano e da madre tedesca, animata da passione per la poesia e il canto, e dotata per di più di regolamentare corredo seduttivo – bella figura, capelli biondi e occhi azzurri – Annie Vivanti aveva tutte le carte in regola per irrompere come un turbine nel milieu culturale dell'Italia di fine Ottocento. Ultima e forse più importante risorsa, una disinvolta cordialità di modi che la induce a scomodare senza troppe remore nientemeno che il vate d'Italia, Giosue Carducci. Dall'ingegnosa missiva che la ventitreenne Annie gli spedisce per chiedere la prefazione al suo volume di poesie, inizia l'affettuosa relazione tra loro e, insieme, la storia letteraria di Vivanti.
È indubbio merito di questo volume curato da Anna Folli, che ricostruisce esaurientemente attraverso le lettere – molte delle quali inedite – il loro legame affettivo, l'aver dato respiro alla figura di Annie Vivanti. Una figura che nelle cronache letterarie del tempo e ancora nelle nostre antologie è ridotta a pura decalcomania, sia pure scintillante e policroma: la bella zingara, la chanteuse capricciosa, la creatura sventata. A cominciare da Croce: "Annie Vivanti ebbe Carmen nella fantasia" e da Borgese: "Destino di zingara e di fata venuta su dall'incrocio di razze discordi", fino alla "cicala che aveva cantato a gola spiegata nei mesi caldi e s'era dimenticata delle provviste per l'inverno", come ebbe a definirla un po' crudelmente Cesare Garboli, riferendosi alla parabola discendente della sua vita. Non meraviglia che di una figura così eccessiva si siano perse le tracce.
Ma Annie Vivanti non era così, o meglio non era solo così; nel ricco saggio introduttivo di Anna Folli che s'intitola Un amoroso incontro e nell'epistolario emergono tratti poco conosciuti della sua personalità. Affiorano un carattere insofferente di autoritarismo che però è alla continua ricerca di persone energiche e autorevoli – e Carducci senz'altro lo era – e un'affinità insospettabile di gusti con l'Orco: amavano tutt'e due le ballate tedesche, lei perché le aveva ascoltate dalla voce materna, lui per la lunga frequentazione di Heine; la loro canzone prediletta era la Loreley e sarà la piccola figlia di Annie, Vivien, destinata a diventare un'affermata violinista, a suonarla durante l'ultimo incontro con il poeta, avvenuto nell'agosto del 1902.
Nei due ritratti di Carducci, Annie sa rendere con vivida immediatezza i sintomi che annunciano il rannuvolarsi del poeta, "duro e violento di fronte alla viltà"; racconta episodi come la visita a Verdi e il colloquio con la regina Margherita con la divertita spontaneità di un'adolescente. E sempre, in ciò che ricorda e scrive, c'è la consapevolezza di aver ricevuto moltissimo da Carducci, ma anche di essere stata importante per il suo benessere, perché "le mie monellerie lo riposavano da tanta grigia solennità". Ecco, è forse questa la chiave non solo del loro rapporto, ma anche dell'espressività della scrittrice. Il gusto della "monelleria", ovvero dell'accostamento imprevisto e ironico e talvolta dell'irrisione costituisce la sua più forte attrattiva. Rileggendo le sue opere, ci si accorge che anche i più abusati cliché – la Donna fatale, la Circe divoratrice di uomini, la Madre gloriosa – sono riveduti e "scorretti" dalla sua ironia. Del resto, l'autrice che aveva esordito con una dichiarazione di guerra a serenate, mandolini, dame bionde e pallidi garzoni (nella poesia Nuova che molto era piaciuta a Carducci) non vi si poteva arrendere così facilmente.
L'accentuazione di certe prerogative della femme fatale scapigliata e dannunziana in Fosca, sorella di Messalina (1922) appare parodistica. Se donne come Fosca conducono alla rovina e alla perdizione gli uomini, ciò non è dovuto solo alla loro natura viperina, ma anche e soprattutto alla natura asinina dei loro partner. Significativa, in tal senso, l'inserzione messa da Fosca sul giornale: "Signora, né buona, né bella, né ricca, desidera fare la conoscenza di un signore che possegga tutte le doti che a lei mancano. Intelligenza non necessaria". L'apologia della Madre gloriosa riceve una beffarda smentita in un romanzo come Mea culpa (1927), in cui un tale esemplare materno che aveva taciuto di aspettare un figlio da un egiziano – e le era andata bene, perché era nata una figlia bianchissima e biondissima –, si ritrova, vent'anni dopo, con un nipote che, fin dall'aspetto, denuncia la colpa antica. Altro collaudato cliché del tempo, la perfetta educazione british: in molti romanzi di Vivanti puritanesimo e colonialismo, cardini di tale "perfetta" educazione, sono i bersagli prediletti. Non sono che indizi di una possibile rilettura: ma autorizzano a ritenere che Annie Vivanti sia un po' meno folcloristica e un po' più sagace di quanto si pensi.
Maria Vittoria Vittori
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