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Sono sorpresa dei voto non esaltanti delle due recensioni che mi hanno preceduto. Adam e Evelyn, benché probabilmente non sia il miglior romanzo a firma Schulze, resta un capitolo importante della bibliografia dello scrittore tedesco, in cui si rivive in modo magico quell'attimo irripetibile quando due mondi fino ad allora divisi improvvisamente si ricongiunsero. Siamo nel 1989 e la cortinadi ferro aveva vita brevissima. Il romanzo coglie quell'attimo in modo felice.
Non ho avuto il coraggio di affrontare Vite nuove, per cui ho letto Adam e Evelyn. Non sono neppure 300 pagine, ma ho impiegato parecchio tempo a finirlo, perchè - dal momento che leggo soprattutto di sera - mi addormentavo dopo poche pagine. Non è brutto, solo non ne ho capito il senso. L'idea di raccontare il subito prima e il subito dopo la caduta del muro da piccoli punti di vista, non dalle tribune della grande storia, non con i megafoni delle ideologie, non è una brutta idea. Ma veramente la storia si perde in mille chiacchiere piccole ed inutili; solo l'ultimissima parte è significativa ed intensa. E poi, giuro, se non l'avessi letto, non avrei proprio capito che le vicende di Adam e Evelyn sono trasposizione del racconto biblico di Adamo ed Eva. E l'Eden sarebbe la Germania dell'est con il muro bello e solido??!!
Niente da fare, Schulze è uno di quegli scrittori che dopo il primo lavoro importante (“Semplici storie”) perdono la freschezza e l’originalità dell’esordio. Dopo la brutta prova di “Vite nuove”, migliora appena con questo romanzetto che ha il suo punto forte nell’ispirazione, il Muro, e i suoi punti deboli nei dialoghi, sciatti e spesso inutili, nella trama, quasi del tutto priva di tensione, nell’omogeneità (saltano spesso fuori figure e situazioni assolutamente inutili all’economia dell’opera). Anche la traduzione talvolta dà l’idea (al profano, quale io sono) di essere un po’ approssimativa. Ci si salva dal disastro solo perchè Schulze, comunque, è un narratore.
Recensioni
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Repubblica democratica tedesca, estate 1989. Adam, acclamato sarto socialista, tradisce la compagna Evelyn con le sue clienti: in casa, tra una prova e l'altra, direttamente sul tavolo da taglio. Lei lo coglie in flagrante e fugge sdegnata in vacanza, accolta a bordo di un'auto occidentale rossa fiammante, direzione il lago Balaton, in Ungheria. Lui dietro, con la vecchia Wartburg anno 1961, la tartaruga Elfi e una giovane autostoppista, Katja, rimediata strada facendo. Rapida sequenza di scontri e incontri tra Adamo ed Eva, amori in itinere, allusioni bibliche, picche e ripicche. Come si vede un incipit da romanzo d'intrattenimento, un "road movie" assecondato dalla cadenza di brevi capitoli e da quell'impianto dialogico rapido, allusivo e frizzante di cui Schulze è maestro.
Ma è un intrattenimento che respira l'aria del tempo: azione e personaggi sono sospinti dalla grande ruota della Storia lungo i drammatici mesi che precedono il crollo del Muro. Il testo ci mette un po' a decollare e, data la generale comprovata ignoranza dei confini mitteleuropei, si consiglia uno sguardo preventivo a un atlante 1989. La prospettiva è quella inedita nella letteratura tedesca sulla riunificazione della fuga attraverso il varco aperto in maggio dall'Ungheria lungo il confine con l'Austria, quando, ripresi dalle telecamere occidentali, centinaia di cittadini della Ddr passarono a frotte in Occidente, mentre altri si riversavano nelle ambasciate occidentali di Praga e Budapest. Inedito è anche il fondale cecoslovacco e lo scenario umano del Balaton (nella traduzione compare con il nome tedesco di Plattensee) che mette in mostra un'Ungheria cattolica e casereccia, dove sono sempre tutti a tavola, e magari si ruba anche, un po' come nel nostro neorealismo anni cinquanta, ma la gente ha cuore e passione. Un paese in quell'estate disseminato di campeggi di fortuna in cui i tedeschi orientali giovani soprattutto, e soccorsi dalla chiesa stazionano fra il timore di una repressione sovietica e la confusa speranza di un cambiamento.
Sempre attento alle differenze generazionali, Schulze sa caratterizzare le figure ritagliandole con pochi saldi tratti nel tessuto dialogico della quadriglia. Katja è la più determinata, è la gioventù ribelle che morde la vita rischiando il tutto per tutto, prima a nuoto e poi lasciandosi alle spalle la Ddr nascosta nel bagagliaio della Wartburg. Evelyn è la cameriera in attesa di un posto universitario nel socialismo del numerus clausus. Stizzita dal tradimento di Adam ma pur sempre oscillante, complice il paesaggio del lago, tra lui e Michael, l'affascinante biologo della Passat rossa, nonché spensierato cantore del paradiso occidentale. Alla fine la troviamo incinta, Evelyn e non sa di chi ma universitaria in Baviera. Perché ce la fanno tutti a passare a Ovest in quella calda estate ungherese, e a stupirsi per la Bibbia nel comodino degli alberghi, per la lavapiatti e la cauzione sugli affitti.
Tutto bene, dunque, in un romanzo che leggiamo a vent'anni dalla scomparsa della repubblica degli operai e dei contadini? Quasi. Resta l'incerto destino di Adam che sembra spegnersi accanto a Evelyn. Un tempo couturier di grido, è ora ridotto a modeste riparazioni nella società del prêt-à-porter. Una figura spaesata, un relitto che ricorda il finale di Storie semplici. Non c'è tuttavia nostalgia di ritorno, perché nel frattempo qualcuno, forse il vicino, ha devastato la sua casa nella Ddr, saccheggiandone anche le memorie più intime. Una nota amara, che riaccende nelle ultime pagine la prosa surreale dell'autore al suo primo, notevole esordio. Ma in "33 attimi di felicità" la violenza era calata nell'Urss in declino, qui invece il segnale proviene dalla Ddr, e si appaia al motivo ricorrente del sospetto, una costante dei cieli divisi che ancora s'infiltra ovunque senza lasciare nessuno indenne.
Interessante la ricezione tedesca. Molto positiva nell'insieme, con diffuso accento liberatorio sull'effervescenza erotica del testo. In realtà Schulze non va oltre qualche paginetta di effusioni che solo un refuso della traduzione (p. 136) rende un po' più piccante. Ma che sarà mai a confronto delle quotidiane chiacchiere promosse dai nostri vertici. O forse questo divario percettivo ci dà il segno del diverso clima in cui stiamo annaspando?
Anna Chiarloni
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