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L’amicizia è uno dei valori fondamentali della vita di ogni persona. Quella tra Nicola Bombacci e Mussolini è un raro esempio di come due persone possano essere amici al di là delle opposte ideologie a cui appartenevano. Bombacci, romagnolo come il Duce, e originario di Civitella di Romagna a poche decine di chilometri da Predappio, fu suo compagno in cui il futuro Duce era il capo dell’ala massimalista e rivoluzionaria del Socialismo. Quando furono fondati i Fasci di Combattimento nel 1919, Bombacci non lo seguì in questa nuova avventura politica e due anni dopo, nel 1921, fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia insieme a Gramsci. Amico di Lenin, fece dei viaggi in URSS dove potè constatare il fallimento dell’esperienza sovietica: paghe più basse e condizioni di vita più miserevoli rispetto ai contadini e agli operai italiani. Nel 1936, negli “anni del consenso” come ebbe a definirli De Felice, gli fu concesso di pubblicare una propria rivista, La Verità, un giornale che Veneziani, nella prefazione, definisce «fasciocomunista». Bombacci poi si avvicinò al Fascismo aderendo alla Repubblica Sociale Italiana, diventando uno degli artefici del Manifesto di Verona del Partito Fascista Repubblicano, dove, oltre alla nota legge sulla socializzazione delle aziende, si garantiva il diritto alla proprietà della casa. L’agitatore romagnolo, inviso a molti fascisti appartenenti alle gerarchie del Regime, era uno dei pochi a cui Mussolini concesse l’uso del «tu», e seppure il Duce era poco incline ai sentimentalismi e non dimenticò mai l’antica comune militanza nelle file del PSI. Catturato dai partigiani comunisti comandati da Walter Audisio e condannato a morte come Pavolini, Barracu, Mezzasoma, Casalinuovo, e altri fascisti repubblicani, fu fucilato. Il suo ultimo grido prima di morire fu: «Viva il socialismo, viva Mussolini!». Di lui caduto, come ricorda Veneziani, «si ricordano gli occhi azzurri rivolti al cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.»
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