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Reportage della Fallaci e di Severgnini ben poco hanno a che vedere con la realtà. La prima è nota soprattutto per le sue bugie, il secondo è totalmente privo di sostanza.
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"Se gli scrittori di narrativa non cominceranno ad affrontare temi più quotidiani, la storia letteraria della seconda metà del XX secolo vedrà i giornalisti (...) attestati all'apice della stessa letteratura". Così, qualche anno fa, Tom Wolfe denunciava una forma di romanzo ormai inadeguata al ritrarre in trasparenza i livelli profondi di realtà; gli faceva eco l'invito di Enzensberger al recupero della tradizione narrativa del reportage, in cui soggettività e creatività interpretativa, ancorate al reale, si costituiscono come preciso strumento informativo, lettura complementare di un'epoca.
La dimostrazione rigorosa che molti scritti che identifichiamo col nome di reportage narrativo sopportino bene l'analisi linguistica e rivelino inaspettate dosi di letterarietà, presentando al loro interno passaggi degni di essere antologizzati, è contenuta in questo saggio di Silvia Zangrandi, una disamina delle costanti sintattiche, morfosintattiche e lessicali del reportage nelle sue varie declinazioni. Nel corpus infatti confluiscono i reportage di guerra (Niente e così sia di Oriana Fallaci e Guerre sporche di Ettore Mo), di viaggio (Un indovino mi disse e In Asia di Tiziano Terzani), sportivi (Dino Buzzati al Giro d'Italia), di costume (Un italiano in America di Beppe Severgnini) e, a conclusione, un journalistic novel (Autosole di Carlo Lucarelli), a rappresentare una categoria di articoli pensati per rendere la realtà leggibile come un romanzo, un'intersezione tra cronaca e ricostruzione fictional non estranea a una certa "letteratura di confine" promossa oggi da alcune collane editoriali (si pensi a "Indicativo presente" di Sironi o al progetto della neonata Alet).
Si esaminano libri, non articoli, poiché l'assunto di partenza - discutibile - è che, per l'analisi, "conditio sine qua non è la pubblicazione dei pezzi su giornale e poi su volume", nella convinzione che il reportage narrativo acquisti valenza letteraria solo "quando abbandona le colonne del giornale per entrare in libreria sotto forma di volume", ovvero quando la finalità narrativa prevale sulle esigenze contingenti dell'informazione.
Sebbene ci si soffermi più su cifre stilistiche che narrative, pure si mette bene in rilievo lo slittamento progressivo dei confini tra finzione narrativa e realtà informativa, tra il racconto della realtà e la sua manipolazione. Anche continuando a utilizzare i modelli della lingua giornalistica, il reportage sfrutta le potenzialità narrative della story, valorizzando la soggettività del racconto, attraverso la ricostruzione di ambienti, la caratterizzazione dei personaggi e l'organizzazione del testo a livello di intreccio: "La grandezza di un reportage non sta tanto nella pretesa oggettività nella documentazione dei fatti, quanto nell'originalità del racconto di quei fatti. Infatti, l'aspetto artistico non è insito negli avvenimenti, ma nel processo della narrazione. L'avvenimento acquista validità artistica quando lo scrittore riesce ad armonizzare l'arte con la vita, il vero con il bello, la verità con l'orrore".
Nell'uso dilagante del far sentire la realtà più che la verità dei fatti, talvolta cedendo a drammatizzazioni dell'accaduto anche prive di riscontro oggettivo e nella generale prevalenza, nel giornalismo contemporaneo, della dimensione emotiva su quella referenziale, denotativa, della notizia, questa del reportage è ancora una scommessa concettualmente ed eticamente forte: rilanciando un'annotazione di Bechelloni e Buonanno contenuta in una raccolta di saggi che, all'inizio degli anni novanta, fotografava la mutazione nelle strategie discorsive dell'informazione (Quotidiani in mutazione, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, Roma 1992), "anche in Italia, forse non è più questione di 'tradizione', e di modelli giornalistici letterari o fattuali. Forse è soprattutto, e più semplicemente, questione di professionalità".
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