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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 2014
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Un’avvertenza per i possibili lettori: se volete qualcosa sul ’68, ebbene, credo che questo non sia il libro che fa per voi. Di ’68 ce n’è davvero pochissimo. Questo è un libro sulla questione femminile in Italia, caso mai, non sul ’68, del quale si fanno appena brevi cenni. Non capisco per quale motivo alcuni titoli debbano essere così fuorvianti per l’utente. O preferisco non capirlo. Comunque, a prescindere dall’aderenza all’argomento smerciato in copertina, il libro è pesante, poco interessante, quasi monotematico (le donne, appunto) eppure senza un suo filo logico. A mio parere Anna Bravo, ottima storica, dà il meglio di sé in altri campi. Ad esempio in quello del nazismo, olocausto, lager etc...; i suoi scritti su quegli argomenti sono davvero di alta scuola. Questo libro invece no. Peccato.
Recensioni
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Come si evince dal sottotitolo non si tratta della storia del '68 bensì delle sue storie, ossia dell'incrociarsi di fenomeni, idee, esperienze e pratiche che, pur nella loro varietà geopolitica, si lasciano ricondurre a un'istanza comune di radicale cambiamento, ma non a una cornice di senso univoca. Attraversandole obliquamente, Anna Bravo le fa reagire a vari temi, qualche volta obbligatori come quello della violenza, altre volte più inaspettati come quello dell'amore e del dolore. La questione principale, molto spinosa soprattutto in Italia, rimane però il processo che porta una parte del movimento a sfociare nel terrorismo. Si sa che alcune liquidazioni in blocco, e senza rimpianti, del '68 si appellano proprio a questo fenomeno. Da brava storica, con uno sguardo postumo che tuttavia ancora la chiama in prima persona, l'autrice sceglie invece la via di un'analisi puntuale che, mentre rintraccia i vari fattori di tale esito nefasto, indica anche le occasioni perdute che avrebbero potuto evitarlo. La più importante di queste è rappresentata dalla lezione del femminismo, non raccolta dall'innesto sul movimento di una "tradizione combattentistica maschile (
) che scambia la non violenza con l'assenza di conflitti, quando è una politica per gestirli in modo evoluto".
Non si pensi all'ingenuità di una tesi che accolla tutto il bene alle donne e tutto il male agli uomini. La faccenda si presenta più complessa. Anna Bravo è anzi convinta che, all'inizio, in quanto espressioni dello spirito antiautoritario del '68, il movimento studentesco e il femminismo condividano l'esperienza di una libertà che è pratica gioiosa di autoaffermazione. Secondo un modello che apprezza le riflessioni di Hannah Arendt sull'agire politico piuttosto che l'armamentario marxista sulla lotta degli oppressi, il nuovo spirito dell'epoca è innanzitutto la palestra libertaria, quasi euforica, di una generazione che mette in gioco il suo desiderio di essere, personale e collettivo, mediante lo stesso atto con cui si affranca dalle macchine di disciplinamento culturale e sociale. Sintomaticamente, le dinamiche di affrancamento del movimento studentesco non si allargano però all'ordine patriarcale e al ruolo subordinato delle donne: "Il sé da cui si parte nel '68 abbraccia l'esperienza di ragazzi e ragazze, ma è filtrato dal maschile, che all'epoca tutti considerano ancora sinonimo di universale". Il femminismo della differenza ossia quello che valorizza la differenza sessuale e diffida del principio egualitario nonché della vecchia e inefficace strategia emancipazionista nasce precisamente in questo contesto. Scoprendo "il bisogno di essere per sé", molte donne lasciano la "causa esterna", che, in nome di una pretesa universalità, prevede la loro militanza come figure secondarie o "angeli del ciclostile", e, riunendosi in luoghi separati, elaborano un ordine simbolico proprio. Si apre la grande stagione che, andando al di là della critica al patriarcato e alla modernità, segna con nuovi saperi e pratiche originali il secondo Novecento.
Come Anna Bravo segnala diligentemente, il fenomeno, in Italia come altrove, è un processo variegato che assume molte forme (il separatismo, il gruppo di autocoscienza, i cortei, l'abbigliamento, i gesti) e produce uno specifico linguaggio (il partire da sé, la relazione fra donne, i vari slogan che evidenziano un particolare talento per il paradosso e l'umorismo). L'aspetto essenziale è però l'emergere una politica che, mettendo a frutto l'esperienza di benessere fisico e di felicità, tipici delle pratiche di autoaffermazione del '68, ne oltrepassa tuttavia l'accidentalità storica e, soprattutto, concretizza l'idea di una modalità non violenta del conflitto. Proprio qui i destini si biforcano: mentre il femminismo procede verso una politica che ripensa in chiave relazionale la figura materna, il lavoro di cura, la singolarità incarnata del sé e l'ontologia della vulnerabilità, una parte del movimento studentesco va invece verso una politica che recupera infaustamente il paradigma del guerriero lasciato in eredità dalle varie agenzie rivoluzionarie della storia. Per alcuni, la lotta armata diventa così una scelta possibile.
C'è, nel libro di Anna Bravo, una notevole capacità di mettersi in discussione, anche a livello implicitamente autobiografico, che non esita a rintracciare le contraddizioni e le responsabilità chiamate in causa dai fenomeni nati nel '68. Se all'analisi del femminismo non manca l'elenco dei nodi irrisolti e delle contrapposizioni che ne ingombrano la vicenda ancora oggi, all'indagine sulla militarizzazione del movimento non manca l'insistenza su elementi particolarmente maligni, come il delirio ideologico che traduce l'antifascismo e i valori della Resistenza in atti omicidi. Nessuna reticenza, insomma, inficia la complessità del resoconto e le pause di riflessione sugli eventi. Forse per timore degli stereotipi di genere, la cornice che organizza il flusso di tali eventi in un quadro storiografico di senso, disponendoli appunto su una polarità femminile e una maschile, subisce però, in corso d'opera, una drastica frattura che, nel computo dei mali, finisce per addossare alle donne il fardello più pesante.
A loro viene infatti riconosciuta la peculiarità di una violenza, spesso subita ma a volte agita, che si consuma sull'inerme. Questi, secondo l'autrice che ricostruisce la riflessione femminista sull'aborto e ne rivede criticamente i risvolti approdando a un'accorata fenomenologia del dolore assume esemplarmente due figure. La prima è il feto, inteso come essere "parziale e liminale", rispetto all'umano compiuto, ma già sensibile al dolore e sofferente nella sua carne. La seconda, altrettanto se non più sofferente, è un anonimo bambino Down, vittima di un infanticidio di gruppo e protagonista di una storia assai agghiacciante forse troppo agghiacciante per essere un resoconto anziché una fiction pubblicata anonima sulla rivista "Les Temps Modernes" nel 1974 e ignorata da Simone de Beauvoir che pur scrive l'editoriale del numero..
Come vale la pena di notare, si tratta di due figure esemplari che eccedono il "semplice" crimine consumato da Medea sui suoi figli. Ciò che definisce l'inerme non è infatti, secondo Bravo, l'infante, il piccolo della specie umana, bensì, in primo luogo, quella che lei considera la sua forma aurorale e perciò non ancora pienamente umana nel caso del feto. Nel caso del bambino Down, è invece una forma fragile d'infanzia, scambiata dai suoi arroganti assassini per umanamente imperfetta. Per quanto l'intento del libro sia un richiamo all'immaginazione e alla dicibilità del dolore (provato da chi abortisce e, soprattutto, dal feto e, ovviamente, dal povero bambino Down), il discorso di Bravo finisce così per suggerire una fatale equiparazione fra aborto e crimine "eugenetico". Come l'autrice ben sa e non manca di raccontare in dettaglio, si tratta di una vecchia storia, tornata oggi notoriamente di moda presso certi ambienti paternalisti e misogini. Questo tuttavia non le impedisce di ricondurre l'omicidio del bambino Down, oltre che all'idea del collettivo come fonte autoritaria di legittimazione, anche ai guasti di un'istanza femminista di autodeterminazione "il corpo è mio e me lo gestisco io" che si sottrarrebbe all'etica del limite.
Riletta in termini di fenomenologia del dolore, se non di gradazione della colpa, la gioiosa ontologia dell'affermazione del sé, benché già promettente presso le donne che "fecero" il Sessantotto "facendo" al contempo di se stesse un libero soggetto, perde così alquanto di mordente. Sorge, anzi, quasi il sospetto che, non essendo chiamata a confrontarsi con la questione primaria della vita (evidentemente una specialità femminile), la tradizione combattente del maschio abbracci una violenza minore, senz'altro condannabile ma meno atroce. Ciò è reso innanzitutto possibile da una sorta di specializzazione sessuata del discorso che va a interpellare le madri dalla prospettiva bioetica e invece i guerrieri da quella politica. L'atto di uccidere civili inermi, per di più già adulti e umanamente completi, non è infatti largamente previsto da un assetto ben noto, nonché familiare agli specialisti e perciò argomentabile, delle categorie del politico? Caratterizzata da istanze intimante disciplinanti e corporalmente intrusive, la bioetica inquieta categorie meno trasparenti. Nonché già sospette allo spirito del '68. Adriana Cavarero
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