Da qualche anno a questa parte la cosiddetta "letteratura industriale", che verso la fine degli anni cinquanta e per tutti i sessanta ha segnato con forza un solco indelebile nella produzione narrativa italiana, rivive in alcune riscoperte editoriali, frutto dell'epoca che viviamo e di un bisogno di ricollegarsi ad alcune esperienze intellettuali e imprenditoriali che, pur naufragate come meteore nella notte dei tempi, stranamente resistono però con forza nella memoria collettiva come un'utopia concreta, forse l'unica, in primis quella della Olivetti di Ivrea che ha fornito un modello diverso (e avverso) umanistico di sviluppo e di democrazia, proprio nel rapporto dialettico dentro il complesso sistema produttivo. Di quella stagione due scrittori fondamentalmente riemergono dall'agone di una stessa koinè, diversi per stile e per certi versi diametralmente opposti, cioè Paolo Volponi e Ottiero Ottieri. Più visionario il primo, filosofico, eccentricamente letterario nel senso estremo, cioè d'invenzione, capace di creare personaggi e immaginari che compiono uno scarto molto forte dal reperto sociologico e realistico, più legato alla presa diretta e dell'autobiografia il secondo, alla commedia umana esistenzialistica, a partire da quel reportage narrativo che è il suo capolavoro assoluto, Donnarumma all'assalto (1959), profondamente calato nell'esperienza della nuova fabbrica di Bagnoli e con al centro un personaggio che parla al presente, prototipo del precario assoluto in un Meridione che sembra eternizzato per come e quanto questo piccolo classico riesca così fortemente e ancora a parlare al presente. Di Volponi è stato ristampato da un paio d'anni il suo romanzo summa, quello nato dalle viscere della balena capitalista italiana, attraversata con spirito illuministico da uno dei nostri maggiori scrittori e intellettuali contemporanei, cioè Le mosche del capitale (Einaudi, 2010; cfr. "L'Indice", 2011, n. 2), mentre ora le edizioni Hacca riportano in libreria il romanzo di Ottieri Tempi stretti, che è anche temporalmente il primo documento e opera letteraria della cosiddetta letteratura industriale, uscito per la prima volta nei mitologici "Gettoni" di Elio Vittorini nel 1957, in una collana di ripescaggi d'autore curata da Giuseppe Lupo, già narratore di romanzi in proprio di riuscita resa stilistica ed espressiva, e come critico uno dei maggiori studiosi di quella stagione e del rapporto tra narrativa e mondo del lavoro. A rileggerlo adesso, dopo mezzo secolo di distanza, questo romanzo ci mostra ancora quella fabbrica, quel luogo concentrazionario, gerarchico, che piega le esistenze, nei tempi spasmodici della produzione ma irrompendo anche in quelli privati della vita, come accade a Emma e Giovanni nella Milano "agra" che poi sarà qualche anno più tardi del ribelle Bianciardi, e a pochi passi quella gogoliana di un altro grande narratore del contro-boom, il corsaro Lucio Mastronardi, suicidato dal cinismo dell'Epoca. La lingua "semplice" di Ottieri, sempre dentro una calibrata misura scabra, coglie il conflitto tra vita e lavoro nella neonata civiltà industriale, quello delle catene di montaggio, quasi dando a tutto questo una valenza di denuncia vista da una condizione psichica, psicoanalitica di alienazione, che poi sarà la cifra di molta sua letteratura futura. Al di là dei fatti, sono le relazioni umane, i rapporti, così come i luoghi un po' spettrali di questa metropoli nebbiosa, gli interni funzionali dell'architettura dei padiglioni dove il lavoro pulsa, gli ambienti impiegatizi fatti di formiche e neon, a dare la cifra di quello "scrittore di carne triste" di cui parlava Calvino, ben evidenziata da Lupo nella sua prefazione con il titolo e il conio, appunto, di "fabbrica triste". La stessa che infonde "ritmi esterni che si traducono in relazioni sociali frenetiche e si metabolizzano in asmatiche palpitazioni interiori", come scrive in una nota al libro lo scrittore Paolo Di Stefano. Quell'"irrealtà quotidiana" che un visionario del cinema, Michelangelo Antonioni, con il quale Ottieri non a caso collaborò, raccontò in due memorabili pellicole. La prima è Il grido, che è del 1957 come questo romanzo, e l'altra Deserto rosso del 1964, uno dei suoi capolavori, dove appunto l'incomunicabilità e l'alienazione nei rapporti umani sono elementi fortissimi, ma sempre con un contesto, un fondale che è la fabbrica, qui forse un po' orwelliana, ma decisiva. In mezzo, nel 1962, non a caso Ottieri scrisse poi insieme a Tonino Guerra la sceneggiatura di L'eclisse, dove Antonioni continuò a raccontare i guasti profondi che l'improvviso falso "miracolo economico" (il film è in parte ambientato dentro la Borsa di Roma) stava producendo in tempo reale nella vita sempre più accelerata e convulsa, ma infelice, delle persone. Angelo Ferracuti
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