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Quattro anni dopo l'inizio della seconda Intifada, nel 2004, Sahar Khalifah pubblica la sua ultima istantanea scattata alla Palestina con il tocco vivido e penetrante che le è proprio. L'autrice, con l'attenzione e il trasporto di chi vuole testimoniare e preservare la memoria storica del proprio paese, racconta la pagina più recente della questione palestinese: il dopo Oslo con il fallimento dei piani di pace e l'escalation della corruzione dell'Autorità palestinese, l'assedio alla Muqata'a (la residenza del presidente 'Arafat) nella primavera del 2002, la costruzione del muro divisorio tra Israele e Territori palestinesi.
L'intreccio narrativo procede da una storia principale, quella della famiglia al-Qassam, per ramificarsi nelle vicende parallele di amici, soldati, gente comune e coloni, tessere giustapposte di un mosaico più complesso, che allude alla trama della storia nazionale. La scrittrice continua a far interagire binariamente i suoi personaggi, sia attraverso il confronto transgenerazionale padri-figli sia mediante il meccanismo di opposizione tra i due protagonisti, Ahmad e Magid, ma anche tra le due ragazze, Laura e Su'ad, le due nonne, i due padri e così via. Una dualità che mostra scelte estreme, posizioni distanti, che spesso le parole non riescono a giustificare, come se le azioni vincolassero l'identità personale e costringessero i personaggi a incarnare, volenti o nolenti, dei ruoli sociali a cui è impossibile sottrarsi. Questa caratteristica stilistica costante nei romanzi di Khalifah fa di Una primavera di fuoco l'intenzionale prosecuzione del lungo racconto, avviato ormai da più di trent'anni, prima con Terra di fichi d'India (1975; Jouvence, 1996) e poi con La porta della piazza (1990; Jouvence, 1994). Le tre opere, ambientate a Nablus, "la madre della Storia e dell'Identità", sono un sentito omaggio alla città natale dell'autrice e alle sue madri: "Eppure la sua bellezza, nonostante il trascorrere degli anni, è rimasta intatta, profumata di Storia, con la sua fragranza d'ambra, la sua terra di zucchero e le sue corti di mandorli e pini".
I protagonisti chiamati all'inevitabile confronto sono due fratelli adolescenti, precocemente e drasticamente costretti ad abbandonare i propri sogni e talenti adolescenziali (l'arte per Ahmad, la musica per Magid) per scontrarsi con la realtà degli adulti: l'amore per una gatta porterà Ahmad in carcere, mentre il fratello maggiore, sospettato di omicidio, vedrà sfumare il suo promettente futuro di cantante e si unirà ai gruppi combattenti. Se all'inizio il padre dei ragazzi è preoccupato perché li reputa troppo impreparati e fragili per il futuro che li aspetta, a distanza di un anno li trova completamente cambiati: la metamorfosi li ha induriti, ha arrugginito i loro cuori, li ha allontanati dalla famiglia e proiettati all'esterno, nella realtà agghiacciante dell'occupazione. In un soffio la strana normalità dei concerti, delle uscite, dei flirt della prima parte del romanzo è spazzata via dall'emergenza: l'emergenza collettiva della situazione politica e sociale, l'emergenza personale di prendere posizione e scegliere il proprio futuro. "La sonata della morte", che dall'apparente stallo iniziale si fa sempre più concitata e irrefrenabile, non risparmierà dunque la nuova generazione, viziata e corrotta dalle canzoni, dal divertimento e dagli abiti firmati. La leggerezza, la sensibilità artistica e l'innocenza dell'adolescenza sono annientate dalla guerriglia, dall'assedio, dalle violenze, come se la presenza della vita fosse usurpata dalla supremazia diffusa della morte e, solo in parte, riuscisse a essere mitigata dagli intermezzi narrativi affidati alle donne.
Le scene dedicate alle tre generazioni di donne divengono infatti gli unici spazi in cui riesce ancora a emergere il calore umano, l'amore o, meglio, le illusioni d'amore di nonne e nipoti. Come in La porta della piazza, la lucidità, la consapevolezza, il sacrificio, la solidità sembrano essere diventate prerogative femminili, non più detenute dagli uomini, che divengono anzi bersaglio dell'ironia, delle aperte denunce, degli attacchi di corruzione che la scrittrice non lesina a nessuno. Khalifah celebra, ancora una volta, la forza delle donne palestinesi attraverso il personaggio della madre di Su'ad, la "madre del quartiere", che la forza maggiore ha reso capofamiglia, imprenditrice, resistente, esempio di donna forte e indipendente per la figlia e per tutti. Il senso di desolata sconfitta sembra risparmiare i personaggi femminili per accanirsi, invece, sugli uomini: collaborazionisti, soldati che tremano di paura, resistenti che diventano funzionari corrotti, prigionieri piegati da anni di carcere, autorità in declino. Magid e Ahmad, soggetti a un'altra svolta esistenziale, maturata durante i paralleli assedi israeliani a Nablus e a Ramallah, soccombono a un destino inaspettato. E nonostante i gruppi sporadici di pacifisti stranieri e israeliani, l'inquadratura finale è quella di una Palestina sempre più sola e isolata tanto nel panorama internazionale quanto nello stesso Medio Oriente!
La scelta di presentare una visione corale persegue lo scopo di Khalifah, ossia dare voce a ciascun personaggio, ma, soprattutto, ai testimoni oculari, come le donne della cucina della corte comune di Nablus, plasmando la finzione sulla realtà. Insospettabile risulta, ad esempio, l'interpolazione, a più riprese, del diario di Magid durante l'assedio alla Muqata'a, un espediente stilistico coinvolgente grazie al relativo cambio di narratore in prima persona, che solo la confessione dell'autrice svela come debito ispirato al documento autentico del giornalista Rashid Hilal.
Il ritmo della narrazione, resa ancora più fluida dall'aderente traduzione, si fa via via sempre più concitato, frammentato in molteplici sequenze parallele, che fotografano efficacemente i personaggi e le diverse posizioni fino all'intenso apice finale. Ramona Ciucani
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