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Un uomo che del suo viso diceva: "somiglia a una torta nuziale lasciata fuori sotto la pioggia" forse si dovrebbe amare a prescindere anche da uno solo dei suoi versi. Ma quando si inizia a vivere nelle sue pagine, negli echi e nei passaggi di questa lirica giostra di parole, nel mirabile modo di accostare le immagini o dosare le metafore, nell'impressionante accordo fra i giri di frase, nella ricchezza inventiva che lega i pensieri, tutto, davanti a un quadro tanto perfetto, cede all'entusiasmo e alla felicità di amare ogni cosa di questo meraviglioso aedo, fuori di dubbio fra i più alti poeti di ogni epoca. "Le facce comuni nei luoghi pubblici / sono più sagge e più belle / dei volti pubblici nei luoghi privati". Antologia sublime, non completa ma fin troppo bastevole a incatenare di gioia e commozione il lettore al picco di ogni rigo. Il perduto amore reso in questi versi che vanno a infrangersi come un tuono in picchiata nell'addio: "Se anche finisse fra te e me, / sia io quello ad aver amato di più" (e forse è questa la più grande verità - vi prego - sull'Amore". Una poesia per molti tratti narrativa, persino saggistica, dominante in certe sterzate come un impareggiabile trattato sulla condizione umana. Poiché anche se "è facile fare la domanda difficile" il poeta sa, conosce benissimo le disinvolte storture del cuore umano, e può addentrarsi in esse senza permessi o visti di maniera; gli basta il polso del suo genio, della sua indole naturale, dei suoi crucci, a rendere "un altro tempo" e questo nel solco delle sue sillabe. E' il palmo aperto al tutto della vita, cosciente che "anima e corpo non hanno confini". Gli amanti sentono la meraviglia pur dentro una notte oltraggiata, e un livido di bontà dovrà pur restare a dire che la vita ha il suono più riuscito di ogni blues dell'esule, o del profugo, o del passante. Un incantevole Maestro del verbo, in un libro che è assai più di un dono. E' la vita che non smette di ripeterci: "l'amore non ha fine".
Recensioni
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C’è stato a lungo un grande equivoco a disturbare, almeno in Italia, la percezione di Auden: l’idea che la sua poesia sia complicata, astrusa, intellettualistica; nella patria del Fanciullino, nel Paese che portava (e porta) la Croce di «intuizione ed espressione», in cui l’ideale di poeta corrisponde – per alcuni aspetti – a un ebete invasato, ciò equivaleva a un ridimensionamento spietato: qualsiasi cosa si potesse dire su questo autore, era sempre absit iniuria verbis, ammantato di pregiudizi il più delle volte incoativi. Sicuramente, un’opera è costellata di false partenze.
Gli anni che sono trascorsi dalla ritardata ricezione italiana (che, però, almeno fin dagli anni Cinquanta ha prodotto – negli interpreti e nei traduttori, così come nei semplici lettori – risultati sovente importanti) hanno mostrato come tale presunta difficoltà si annidasse nella molteplicità dei riferimenti poetici e stilistici di un poeta che attinse ugualmente alle saghe celtiche e alla musica di Verdi, al blues e allo smacco della Guerra di Spagna, alla poesia civile, sociale, politica e addirittura barricadera così come a quella mistica, religiosa e metafisica. Un poeta, un prosatore, un saggista, un drammaturgo tutt’altro che parsimonioso, rispetto alle fonti della sua ispirazione.
Nei versi e più in generale nell’opera, soprattutto in una parte di essa ritenuta a torto trascurabile, il teatro (per esempio, una pièce scritta a quattro mani con Christopher Isherwood), tutto da scoprire e da sdoganare per la rappresentazione, si riversano senza posa gli ingredienti di uno snobismo talmente estenuato da sciogliere se stesso nel suo opposto, in un manuale di conversazione in versi e prosa di assoluta apertura e disponibilità. Il legame con la lingua parlata ha un’origine precisa, il Bardo del blank verse: «nel verso inglese, persino nei più grandi passaggi retorici di Shakespeare, l’orecchio avverte sempre la relazione col discorso quotidiano. Un buon attore ha il dovere – ahimè, oggi troppo raramente perseguito – di far sentire agli spettatori che le battute shakespeariane sono in versi e non in prosa; ma se tenterà di dare a quei versi il carattere di una lingua diversa da quella corrente, si coprirà di ridicolo» (La mano del tintore, Adelphi 1999).
Tanto più questo paradosso si accampava, quanto più si camuffava nell’apparente falsetto di un autore che pareva pronto a cogliere ogni sollecitazione. Ma aprirsi a tutti gli influssi, in realtà, significa non accoglierne nessuno. E in questo bolo critico (salva l’idea tutta Stilkritik – leggasi, entralpe, continiano-montaliana – che il primo critico non possa essere che lo scrittore stesso), in tale dissidio insanabile, accade, prende forma – per alcuni aspetti – la poesia di Auden. Questo assioma peraltro in tutta la poesia, e nei maggiori autori angloamericani del Novecento in particolare, è quasi un luogo comune. Non solo per i grandi classici del secolo scorso, come Eliot, Pound e Stevens, ma anche per poeti a noi più vicini come Lowell e Berryman, per non ricordare tanti altri.
Le Poesie scelte ora edite da Adelphi sono la traduzione italiana dei Selected poems curati nel 1979 da Edward Mendelson, uno dei maggiori interpreti nonché sodale del poeta britannico. Il volume contiene il mirabile saggio di Josif Brodskij Per compiacere un’ombra, contenuto in Fuga da Bisanzio (Adelphi 1987) e ristampato in apertura: dove si parla di un influsso così radicale da trasformarsi in teratologia: quello subito dal poeta russo in esilio, seduttore cosmopolita, ad opera di quello britannico, omosessuale e girovago. In realtà ogni anomalia o trasformazione, per non dire metamorfosi, risveglia la propria altrettanto infame compagna, l’analogia, abbinate per l’eternità dai grammatici alessandrini. Così Auden rimane impigliato più di altri nel dio dei raffronti, divinità ombrosa e dispotica, a un tempo avara e incontenibile, incontentabile. In una raccolta ricordata non troppo frequentemente, Un altro tempo, una delle poesie denudanti ci pare essere quella dedicata a Edward Lear, lo stilatore di limericks, atroce e delizioso poeta giocoso di metà Ottocento (ma è una citazione errata, perché l’immagine del gatto appartiene invece a Samuel Butler): «il banco di prova della fantasia sta nel saper dare nome a un gatto, e dal secondo capitolo della Genesi apprendiamo che il Signore presentò ad Adamo, ancora in stato di innocenza, tutte le creature perché desse loro un nome, il quale divenne poi, dopo che Adamo ne ebbe attribuito uno a ciascun essere vivente, il rispettivo Nome Proprio». Non è peregrino richiamare la messe di riferimenti che l’espressione nomi propri richiama in autori assai lontani da Auden come Lévinas o Derrida.
Non è esagerato rinvenire una costante nella frequentazione del fool shakespeariano, che condurrà ad approdi estremi nella sua variante più ghignante, Calibano – il quale reca in sé molti enzimi del fool, pur non esaurendosi in esso –, in quello che è da molti considerato uno fra gli esiti più alti di Auden, Il mare e lo specchio del 1944, dove il clown è presente fin dal prologo. Il sottotitolo dell’opera recita: Commento alla Tempesta di Shakespeare, e non a caso Auden simula un impianto teatrale o metateatrale o, addirittura si dovrebbe dire, meta-metateatrale – vista la metateatralità della stessa Tempesta. Il mare e lo specchio è a tutti gli effetti un prosimetro, visto che la parte in cui il poeta dà la parola a Calibano, di gran lunga la più estesa, è in prosa. Va reso l’onore delle armi a Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica perché tradurre Auden è una delle imprese più difficili che possano capitare, e in particolare ardue sono le difficoltà di Caliban to the Audience. Il mare e lo specchio è considerato uno dei testi più impervi di Auden dal punto di vista della complessità simbolica; in ogni caso è uno dei suoi capolavori – e tali va pure considerato Horae canonicae, che raccoglie componimenti che vanno dal ’49 al ’54.
La comicità, l’umorismo, persino il sarcasmo (che si colgono maggiormente in lingua originale) ci conducono a uno dei saggi capitali di Auden, Gli irati flutti o l’iconografia romantica del mare. Tale opera del 1950 (tradotta per Fazi, nel 1995, da Gilberto Sacerdoti) santifica, eternandolo, un contrasto fra due personaggi imprescindibili della sua opera, i due vagabondi Ismaele, di Moby Dick, e Don Chisciotte della Mancia: «entrambi sono infelici, ma mentre Ismaele ha patito un torto e prova dispiacere per se stesso, Don Chisciotte è infelice solo perché gli dispiace che il mondo non sia il mondo quale dovrebbe essere nel suo stesso interesse; egli non prova dispiacere per sé, ma solo vergogna per non essere capace di curare il mondo dalla sua infermità». Se non tutto, una buona parte di Auden si dibatte in queste acque.
Luca Archibugi
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