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Se esiste un canone del fumetto francese contemporaneo, Peplum di Blutch è uno dei suoi pilastri: abbastanza recente per poter dire che la sua uscita «sembra ieri» — e invece era vent’anni fa — eppure già classico. Si potrebbe persino dire che ha già stufato, che il Grand Prix al festival di Angoulême lo ha mummificato, che è tempo di passare ad altro, che troppi giovani autori se ne sono ispirati, se non fosse che in Italia il capolavoro di Blutch non era mai arrivato. Questo ci fornisce una piccola dilazione per provare a parlarne come di una cosa nuova, sconvolgente, mai vista. Mettiamo le cose in chiaro: la rivoluzione di Blutch è una rivoluzione del segno. Peplum sarà anche un libero adattamento del Satyricon di Petronio, tutto molto interessante, ma quello che conta qui è il tratto, ruvido e sciolto, jazzato. Con i suoi assoli di pennello l’autore alsaziano aggiorna l’arte dei grandi maestri dell’illustrazione otto-novecentesca, da Honoré Daumier a Gus Bofa. Perché in fondo è questa la verità della «nouvelle bande dessinée française» degli anni Novanta e Duemila, da Blutch a Blain, passando per Trondheim e Larcenet, fino a Sfar e Satrapi: un ritorno al disegno comico, alla tradizione della caricatura, all’economia del segno umoristico ma (sorpresa) per raccontare storie serie. In questo senso Peplum era anche un manifesto programmatico, il grido di una generazione che ha deciso di farla finita con il realismo in nome di un’altra idea di fumetto, più espressiva. Che bisognasse passare dal segno comico per raccontare il mondo, d’altronde, lo aveva mostrato proprio Petronio.
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