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Osservazioni sulla filosofia della psicologia - Ludwig Wittgenstein - copertina
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Osservazioni sulla filosofia della psicologia

Descrizione


Wittgenstein concluse la prima parte delle Ricerche filosofiche nel 1945. A partire dal 1946, si concentrò sui temi della filosofia della psicologia, accumulando le osservazioni che compongono questo volume, apparso nel 1980. Esse vanno lette, per un verso, in parallelo con la seconda parte delle Ricerche, dove alcune di queste note andarono a confluire. Ma, per altro verso, esse valgono come indicazione delle nuove vie cercate da Wittgenstein negli ultimi anni, anche al di là delle Ricerche. In piena evidenza apparirà in questi scritti una certa impronta antropologica, se con essa intendiamo la convinzione che i problemi della teoria della conoscenza – a cui Wittgenstein aveva dedicato tutta la sua vita – non possano essere affrontati senza considerare quei «binari fissi su cui corre tutto il nostro pensiero». È questo il Wittgenstein paziente, minuzioso, acutissimo, che non parla soltanto di logica ma dei nostri sentimenti elementari – dal dolore alla sorpresa – e del modo in cui li esprimiamo correntemente, non stancandosi mai di individuarvi cose che rimangono da capire. Il presupposto di questo Wittgenstein estremo, per noi oggi particolarmente affascinante, è che «la malattia del pensiero deve seguire il suo corso naturale» – e di fronte a essa il filosofo deve contare soltanto su una «lenta guarigione».

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Dettagli

2
1990
19 marzo 1990
576 p.
9788845907432

Voce della critica


recensione di Mulligan, K., L'Indice 1990, n. 6

L'analisi dei concetti psicologici sembra essere una ossessione tipicamente austriaca. A partire da Mach e dalla psicologia descrittiva di Brentano, Husserl e Freud, passando per i gestaltisti, e giungendo fino a Musil e Wittgenstein, l'interesse per la complessità delle nozioni psicologiche e la credenza che questa complessità delle nozioni psicologiche e la credenza che questa complessità possa venir messa in luce attraverso la descrizione e il metodo della variazione permane un filo conduttore costante, malgrado le grandi differenze di scopi filosofici e scientifici. Si sa come la chiarezza sia stata l'imperativo categorico mitteleuropeo, e per gli austriaci chiarire era, innanzitutto, chiarire i concetti psicologici. Un effetto, forse solamente collaterale, dell'ossessione wittgensteiniana per la chiarificazione concettuale è la demolizione di interi edifici filosofici con poche, incisive osservazioni. Ecco tre esempi.
Da Cartesio fino a Brentano l'amore era stato per la tradizione filosofica il paradigma degli episodi affettivi, ed è questa la posizione che esso assume nelle tassonomie filosofiche della vita interiore. Ma "l'amore non è un sentimento. L'amore viene messo alla prova, il dolore no" (OFP I 959) "L'amore, ciò che è importante nell'amore, non è un sentimento, ma qualcosa di più profondo che solo nel sentimento si esprime" (OFP I 115). Questa cosa più profonda è l'aspetto disposizionale del concetto di amore. Maria può amare Sam per anni e anni (sette al massimo, secondo Freud), ma non c'è nessun sentimento che ella provi durante tutto questo periodo.
Anche l'apparente univocità dei concetti psicologici, così evidente per tanti filosofi, viene messa in dubbio. Più enfaticamente di Mach o Husserl, Wittgenstein ci mostra come, in molti casi, la somiglianza tra fenomeni psicologici debba far posto alla mera somiglianza di famiglia o ad un legame ancora più debole. Solo Musil ha insistito tanto su questo punto: "Forse sarà utile far presente la parola 'forchetta' e i suoi derivati. Vi sono forchette per mangiare, forconi per il letame, forcelle della bicicletta e dello stomaco, forcine dei capelli, e a tutti questi termini è comune 'l'essere forcuto'. Ma mentre ogni forca o forchetta può essere immediatamente confrontata con un'altra ed è percettibile ai sensi...così non accade per le diverse forme dell'amore; e tutta l'utilità dell'esempio si riduce alla questione di sapere se anche qui, come per il carattere forcuto delle forchette, non ci sia un'esperienza capitale, qualcosa di amabile, di amoroso e di amatorio che è comune a tutti i casi". Fra tutti gli esempi dell'amore c'è "una catena di comparazioni con molte varianti e con fondamenti di ogni genere, i cui estremi possono essere molto dissimili" ("L'uomo senza qualità", cap. 51), una serie di possibili oggetti di confronto, direbbe Wittgenstein.
Infine la venerabile dicotomia tra vedere e pensare, tra la passività sensoriale e l'applicazione dei concetti, si rivela essere nient'altro che un'incredibile serie di semplificazioni. Wittgenstein tratteggia un paesaggio concettuale di complicate connessioni tra i differenti concetti di vedere. Riprendendo esempi già discussi dai gestaltisti (ai quali tuttavia non risparmia le critiche) Wittgenstein nota quanto sia diverso il vedere una tavola dal vedere una somiglianza tra due volti, o ancora dal vedere una certa immagine ambigua prima come l'immagine di un'anatra e poi quella di una lepre. Chi non vede la somiglianza o l'aspetto-anatra soffre di cecità a una Gestalt. Le radici di questa cecità sono varie: in alcuni casi non si è padroni di certe operazioni, in altri di certi concetti, in altri ancora si manca di immaginazione. Diviene evidente che un legame tra vedere e pensare al quale molti filosofi e psicologi sono stati insensibili è questo: capire un nuovo significato di una parola o seguire una nuova regola è come essere colpiti da un aspetto; si può essere ciechi ad un significato. E anche le teorie tradizionali della connessione tra vedere e pensare vengono criticate: quando vedo la tavola o un volto triste non è che io faccia un'inferenza a partire da dati visivi più semplici o da smorfie.
Le "Osservazioni sulla filosofia della psicologia" sono studi preparatori per la Parte II delle "Ricerche Filosofiche", dicono i curatori; certo sono la ricerca più ampia che Wittgenstein ci abbia dato sulla varietà dei concetti e dei fenomeni psicologici. E rendono ancora più complicata la risposta alla domanda che si pone ad ogni lettore del filosofo austriaco: cosa voleva Wittgenstein?
Sembra chiaro che queste osservazioni distruggono il mito, non ancora del tutto estinto, di un Wittgenstein behaviorista. Ma al tempo stesso fanno sì che diventi più difficile credere ad un Wittgenstein anti-sistematico (anche se era così che egli si considerava). Il suo "piano della trattazione dei concetti psicologici", che prevede l'analisi dei tratti distintivi delle loro diverse categorie, è elaborato nel corso di gran parte delle 1874 osservazioni. Ma, in modo ben più impressionante, sono le ramificazioni, gli incroci e gli intrecci dei sentieri a colpire l'occhio del filosofo. Sicuramente troviamo qui una ricerca nel dettaglio, la cui ricchezza sorpassa, e di molto, ciò che l'antropologia filosofica continentale o le scienze cognitive attuali ci propongono.
Viviamo oggi un'intensa interazione tra psicologia e filosofia, e questo dibattito ha in epoca recente un unico parallelo, nella discussione, nella prima metà del secolo, sulla psicologia della forma, sul fisicalismo e sul behaviorismo. Le "Osservazioni" di Wittgenstein appartengono a questa prima epoca e hanno profondamente marcato la filosofia della mente contemporanea. Tuttavia egli non ha affatto condiviso le ambizioni, proprio perché ambizioni teoretiche che hanno guidato la ricerca in questi due periodi. Un obiettivo importante di Wittgenstein era quello terapeutico - curare le malattie filosofiche di filosofi e di psicologi - ma è un altro motivo pratico, questa volta d'ordine estetico, che affascina chi legge le "Osservazioni". Dobbiamo prendere sul serio ciò che Wittgenstein dice quando scrive che si è interessato solo a due tipi di problemi, problemi estetici e problemi di logica, dove "logica" va inteso in un senso largo che include il tracciare i limiti dei concetti psicologici.
Il lettore ideale apprenderà come vedere e capire la vita interiore attraverso l'esperienza di una serie di cambiamenti d'aspetto concettuale organizzata in maniera magistrale da uno stilista di genio - per il quale lo stile non è mai ornamento. L'imporsi di questi nuovi aspetti è una funzione sia delle sorprese che ci danno le sempre più ramificate descrizioni wittgensteiniane sia delle immagini fuorvianti in cui consiste la nostra cecità "Ciò che mi sforzo di ottenere non è l'esattezza, ma la perspicacia" (OFP I 895).


recensione di Legrenzi, P., L'Indice 1990, n. 6


L'emancipazione della psicologia dalla filosofia non è una scusante. La disarmante ingenuità di molti cultori della scienza cognitiva è favorita dalla totale ignoranza della filosofia contemporanea. Anche di quella filosofia, come questi scritti di Wittgenstein, che potrebbe veramente emancipare gli psicologi. A onor del vero va detto che per alcuni il danno non è grave: lavorano su paradigmi sperimentali talmente particolaristici che qualsiasi confronto esterno è loro precluso. Ma altri affrontano questioni di un po' più ampio respiro. A costoro si può raccomandare la lettura di questa recente traduzione. Non tanto e non solo per il fatto che vi sono le premesse per alcuni dei problemi oggi dibattuti dagli psicologi. Il "lo ha già detto Wittgenstein" può non essere molto di più di una curiosità storica, da liquidarsi con semplici citazioni. Ad esempio è divenuto di moda, quando si parla della ricerca contemporanea sulle categorie o sui concetti, ricordare che Wittgenstein per primo ha introdotto la nozione di "rassomiglianza di famiglia'' e di "prototipo". Diversi libri di psicologia, anche di autori italiani, raccontano come, dopo cinquant'anni di ricerca sperimentale sui concetti, sia stato accertato che noi ci rappresentiamo le categorie come insiemi di esemplari organizzati attorno a un prototipo (ossia quel membro della categoria che è caratterizzato dal possesso di numerosi attributi comuni alla maggior parte degli altri esemplari, anche se non a tutti). È dunque d'obbligo la citazione del passo delle "Ricerche Filosofiche" che parla delle "somiglianze di famiglia". Ma è lo psicologo militante, e non lo storico delle idee, che dovrebbe apprezzare il Wittgenstein maturo. In lui non troviamo soltanto riflessioni sulla "filosofia della psicologia" (nel senso di "fondazione filosofica della psicologia" come potrebbe sembrare dal titolo della raccolta), ma anche spunti o accenni a quelli che saranno futuri filoni di ricerca.
Il modo privilegiato di lavorare di Wittgenstein è quello di proporre "esperimenti pensati". Questi non sono 'progetti' di esperimenti veri e propri. Sono qualcosa di meno, per il semplice fatto che sono 'esperimenti non realizzati', qualcosa di più, perché non sono limitati da vincoli operativi (dover ottenere risposte misurabili e ripetibili si rivela spesso riduttivo), e qualcosa di diverso in quanto 'simulano' un problema invece di riprodurlo in laboratorio (attività, quest'ultima, oggi assai praticata nella scienza cognitiva). Wittgenstein è critico nei confronti della psicologia sperimentale dei suoi tempi (non lo è, come talvolta è stato affermato, nei confronti di tutta la cosiddetta 'psicologia empirica'!). Ritroviamo qui sviluppato il famoso passo delle "Ricerche Filosofiche" (quello sulla "psicologia come scienza giovane", che tutti citano). La tecnica sperimentale è un 'metodo di soluzione dei problemi' che finisce spesso per non centrare quello che "veramente ci preoccupa" (I,1039). Wittgenstein non si confronta direttamente con il paradigma comportamentista, allora prevalente soprattutto nei paesi di lingua inglese. Quando cita psicologi si rifà preferibilmente a James e a Kohler: in realtà sappiamo dalla recente biografia di McGuinness che aveva conosciuto dall'interno la 'cucina' della nascente psicologia sperimentale (Cambridge era già allora un centro di ricerca molto vivace e Wittgenstein aveva presentato nel luglio del 1912 un suo lavoro sulla psicologia del ritmo alla riunione della British Psychological Society). Wittgenstein è particolarmente critico del rapporto che si instaura nella psicologia sperimentale a lui contemporanea tra problemi teorici, metodologia di ricerca e tecnica sperimentale. Queste ultime ponevano troppi vincoli. Per questo egli ricorre ampiamente ad una variante degli 'esperimenti pensati' che è una via di mezzo tra l'introspezione - proprio in quegli anni ripudiata dai comportamentisti - e l'approccio simulativo. Si può così capire come il totale rifiuto dei vincoli metodologici che in quei tempi la psicologia riteneva necessari per essere legittimata come scienza gli abbia permesso di anticipare alcuni temi oggi dibattuti nella scienza cognitiva.
Come funziona un esperimento pensato? Proviamo a farne uno per analizzare il significato dell'espressione "seguire una regola". A questo scopo immaginiamoci di domandare ad una persona quale regola governa questa serie di numeri: 246. Questa persona ci dirà probabilmente che si tratta di numeri pari crescenti e/o di numeri crescenti ad intervalli di due. Ora - da un punto di vista logico - il numero delle regole possibili è infinito. Ma le regole 'plausibili' sono molte di meno. Perché? La nostra mente ha dei vincoli cognitivi? Non siamo forse in teoria capaci di immaginarci un'infinità di modi di proseguire quella serie, tutti governati da una regola, per quanto complicata ed astrusa? Eppure, se è un'altra persona che vuole cercare di dirci quella regola (e se deve farlo mediante un esempio) il numero delle regole possibili si riduce molto. Infatti - a meno che quella persona non voglia trarci in inganno - è lecito aspettarsi che ci fornisca un esempio "rilevante". In altre parole tutte le informazioni in esso contenute (numeri interi, numeri crescenti per due e pari) devono essere utili per identificare la regola, tra le molte teoricamente possibili, di cui l'esempio è 'veramente' esempio. Il restringersi del campo di scelta, a partire dalle infinite regole logicamente compatibili con "2 - 4 - 6", si spiega così con vincoli connessi al modo di funzionare della comunicazione sociale (e non della mente di un individuo).
Se ben condotti, gli esperimenti pensati - quelli che, come quest'ultimo, iniziano con "immaginiamoci che..." - ci mostrano qualcosa che va al di là del concreto caso immaginato. Non importa che la sequenza usata come esempio sia "2 4 6". L'esperimento pensato vuole alludere alla natura sociale del gioco linguistico seguire una regola: "Io posso dire ad una persona: 'Questo numero è la prosecuzione corretta di questa sequenza'; in questo modo posso far sì che in futuro quella persona chiami 'prosecuzione corretta' ciò che io chiamo così. Vale a dire, io posso insegnarle a proseguire una successione (successione di base) senza usare alcuna espressione della 'legge della successione'..." (Il, 403) "Infatti là dove si dice: 'Ma non vedi...!' la regola, appunto, non serve a niente: è la cosa spiegata, non quella che spiega" (Il, 405).
Quando Wittgenstein detta questi scritti, nel '47 e '48, è terminato un lungo percorso. Dalla biografia di McGuinness sappiamo che già nel gennaio del 1913 scriveva a Russell: "Non ci possono essere differenti tipi di cose! In altre parole qualsiasi cosa possa venire simbolizzata da un semplice nome proprio deve appartenere ad un tipo...". E nel "Tractatus" avremo delle relazioni di denominazione altrettanto semplici: l'unica cosa che si possa dire della relazione di un nome col suo oggetto è che il nome sta per l'oggetto. Sempre al 1913 risale l'idea che non vi sia necessità al di fuori della logica. E infatti nel "Tractatus" non c'è posto per principi come quello di induzione o di causalità: questi si trasformeranno, nel corso del secolo, in oggetto di studio di grandi psicologi come Michotte o Bruner. Anche la 'necessità logica' diventerà un ingrediente di un grande sistema psicologico. Nel gruppo di trasformazioni INRC di Piaget ritroviamo infatti gli operatori su cui Wittgenstein rifletteva nelle "Note sulla logica" del 1913: il reticolo che in Wittgenstein è la struttura del mondo diventa una rappresentazione della nostra competenza ragionativa.
Wittgenstein si accorgerà ben presto del semplicismo della relazione diretta nome-oggetto (presupposta poi nel classico esperimento condotto nel 1920 dal comportamentista Hull: i soggetti dovevano 'scoprire' dei concetti sconosciuti definiti mediante l'aver in comune un elemento grafico. Apprendere un concetto viene quindi 'ridotto' ad accorgersi che oggetti diversi hanno qualcosa in comune). Introdurrà quindi un intermediario sotto forma di una regola volta a governare l'applicazione di un nome ai suoi oggetti. Wittgenstein, tornando ad occuparsi negli anni trenta di filosofia, si interroga sulla 'realtà psicologica' delle regole intese come mediazioni tra nomi e ed oggetti. Nel seguire la regola abbiamo in mente una sua formulazione simbolica? Quando si segue una regola interviene una qualche codificazione della regola stessa? (in seguito questo problema verrà studiato sperimentalmente e si scoprirà quante regole governano, a nostra insaputa, i progressi mentali). Se vogliamo capire la differenza tra seguire una regola ed agire in modo conforme ad essa dobbiamo conoscerne le applicazioni (II, 409) ed essere in grado di scegliere tra applicazioni differenti (Il, 410). Wittgenstein finirà così per rifiutare questa 'misteriosa entità intermedia' ('Mittelwesen'). Non c'è dunque un modo di ragionare che è la struttura profonda comune a diverse regole. Non possiamo cioè individuare in una "logica mentale" la rappresentazione della nostra capacità di pensare e fare inferenze. Lo sviluppo mentale non può venir descritto in termini di acquisizione e controllo di strutture generali, indipendentemente dai contenuti e dagli oggetti su cui riflettiamo. Il grande tentativo del primo Wittgenstein verrà in certo qual modo ripreso da psicologi come Piaget e da linguisti come Chomsky. Oggi sappiamo che questa grandiosa impresa è probabilmente destinata al fallimento. Non sono riconducibili ad una sintassi logica le diverse strutture di ragionamento e la capacità di capire e produrre il linguaggio (basti pensare, nell'orizzonte della psicologia cognitiva attuale, a paradigmi alternativi come gli schemi pragmatici di ragionamento à la Cheng e Holyoak o ai modelli mentali à la Johnson-Laird). Wittgenstein giunge così alla conclusione, su cui lavora molto in questi scritti, che non è esplorando le menti altrui ma "i comuni umani modi di fare" che possiamo capire che cosa vuoi dire 'seguire una regola'. A questo riguardo egli ci presenta diversi esperimenti pensati.
Poniamo - dice, ad esempio, in II, 394 - che uno sperimentatore abbia raccolto dei dati che seguono più o meno una curva. Sarà facile per lui tracciarla. Se invece questi dati si distribuiscono a caso, come una nuvola di punti, non sapremo dove tracciare la curva perché nessuno ci ha insegnato che cosa fare in questi casi. "E se incontrassi persone che, senza un metodo per me comprensibile, e senza fermarsi a riflettete, tracciassero una curva attraverso questa costellazione, io non potrei imitare la loro tecnica, ma se dovessi vedere che per loro qualunque linea plausibile viene riconosciuta come quella giusta...allora io direi che questa non è più la tecnica a me nota, bensì una tecnica che le è simile solo 'esteriormente', mentre la sua 'essenza' è del tutto diversa. Ma se dico questo, scarico il peso del giudizio sulle parole 'esteriormente' ed 'essenza'. Che tipo di giudizio? Un'informazione sul fatto che è un gioco completamente diverso ma anche per esprimere che io non partecipo più al gioco o che, comunque assumo un'altra posizione nei suoi confronti" (II, 395).
È dunque l'intero gioco linguistico che costituisce la relazione tra nome ed oggetto, e non una particolare regola o criterio. Così l'idea di gioco linguistico nella filosofia dell'ultimo Wittgenstein svolge la funzione che le regole avevano occupato nel periodo di mezzo. I giochi linguistici costituiscono per Wittgenstein la soluzione definitiva a quei problemi che egli non era riuscito ad affrontare basandosi sul concetto di regola. Come interpretiamo i modi di funzionare di tali giochi? Come uno psicologo che deve dimenticare, ad esempio, la sua conoscenza implicita di "regole, permessi, promesse" se vuole riuscire a inventare situazioni sperimentali cruciali (cfr.I, 269; I, 950). Wittgenstein usa infatti la metafora dell'esploratore che scopre una cultura sconosciuta e, attraverso l'analisi del comune umano modo di fare' interpreta una lingua a lui ignota, (l'espressione "die gemeinsame menschliche Handlungsweise", resa in italiano nelle "Ricerche Filosofiche" con "il modo di comportarsi comune agli uomini", non va intesa in senso universalistico come "comportamento comune all'intero genere umano". Wittgenstein si riferisce ad una qualsiasi comunità culturale: anche i pochi specialisti che condividono un qualsiasi linguaggio 'tecnico'). Molti sono gli esperimenti pensati di cui si potrebbe discutere il collegamento con l'attuale lavoro degli scienziati cognitivi. Due soli esempi: in I, 173 si allude a quello che oggi è il paradigma di interrogazione nel corso della lettura di frasi: per scandagliare i processi mentali vengono posti ad un soggetto dei compiti interrompendo la sua attività di lettura e di comprensione di un testo; in I, 110l Wittgenstein propone la misurazione della direzione dello sguardo altrui e del campo in cui ci si sente visti o guardati anticipando il lavoro di Gibson che scoprirà la nostra raffinatissima competenza e precisione nella detenzione ed interpretazione degli sguardi altrui. Ma, lasciando tali sorprese alla lettura degli psicologi che vorranno approfittare di questa accurata edizione italiana, mi limito a ricordare l'importanza, nel dibattito attuale, della metafora, cara a Wittgenstein, dell'esploratore. Una sua nuova variante è stata utilizzata da Searle per confutare la versione forte dell'intelligenza artificiale (cfr. I,1096). Essa si basa sul criterio di Turing: se un calcolatore produce risposte tali per cui un esperto non è in grado di distinguere il suo comportamento da quello di un essere umano che possiede una certa capacità cognitiva (ad esempio parlare) allora anche il calcolatore possiede tale capacità. Immaginiamo ora il nostro esploratore di fronte allo scenario del famoso esperimento pensato di John Searle: "Si consideri una lingua che non conosco, poniamo il cinese. Immagina che io sia in una stanza contenente scatole di ideogrammi cinesi e un manuale di regole (scritto in italiano) che mi permette di associare in modo corretto gli scarabocchi specificandone la forma (le regole sono del tipo: "prendi uno scarabocchio fatto così e mettilo nella tal scatola"). Fuori della stanza ci sono dei cinesi che introducono gruppi di ideogrammi. Usando il manuale io posso dialogare con loro restituendo altri gruppi di ideogrammi. Che cosa deciderà l'esploratore che assiste a questa scena: sono o non sono capace di parlare cinese?
Questo esperimento pensato mostra che si può superare 'stupidamente' il test di Turing: si può agire 'in accordo con' le regole del linguaggio cinese senza 'seguirle'. Fuor di metafora: il fatto che un calcolatore (corrispondente alla persona che parla dalla stanza) possa con un adeguato programma (e cioè il manuale a disposizione nella stanza) produrre le risposte corrette (le sequenze di ideogrammi che io passo ai cinesi veri) non vuoi dire che il calcolatore sappia partecipare ai giochi linguistici cinesi. Rispunta, a quarant'anni di distanza, la differenza tra seguire una regola (capendola) ed adeguarsi ad una regola (senza capirla). Oggi la medesima questione si pone con le simulazioni fatte mediante le reti connessioniste. Facendo girare uno di questi programmi gradualmente 'emerge' l'uso di una regola appresa sulla base di risposte negative e positive fornite al sistema (date da chi sta al di fuori della stanza). Il formarsi (dentro la stanza) di regole sub-simboliche (così chiamate dato che non vengono rappresentate esplicitamente nel sistema: non sono scritte in nessun manuale!) è una prova che nel sistema artificiale è stata riprodotta quella data competenza cognitiva? La lettura di questi scritti di Wittgenstein aiuterà gli scienziati cognitivi a rispondere in modo non dogmatico a questa cruciale domanda.

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Ludwig Wittgenstein

1889, Vienna

Tra le opere tradotte in italiano ricordiamo: Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 (Einaudi, 1974), Ricerche filosofiche (Einaudi, 1967), Osservazioni sopra i fondamenti della matematica (Einaudi, 1971), Lezioni e conversazioni (Adelphi, 1967), Pensieri diversi (Adelphi, 1980), Diari segreti (Laterza, 1987), Osservazioni sulla filosofia della psicologia (Adelphi, 1990).

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