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Il mare è rotondo - Elvis Malaj - copertina

Descrizione


Una storia spiazzante, ironica, esplosiva. Elvis Malaj ci trascina in un gioco letterario spassoso e raffinato, in cui tra depistaggi, giri a vuoto e false partenze si diverte a stupire i lettori e li accompagna, con la sua voce originalissima, verso l'inatteso, scoppiettante finale.

«In questa nuova prova Malaj mostra l'esperienza della migrazione in tutta la sua complessità, prestando ai suoi personaggi il doppio sguardo di chi ha il piede in due mondi e può raccontarci l'Italia agognata e immaginata dall'Altro» - Robinson

Quella tra Ujkan e l'Italia è una relazione complicata. Andarci è sempre stato lo scopo della sua vita, ma il motivo non se lo ricorda più. Quando aveva undici anni aveva provato a raggiungerla mescolandosi ai profughi kosovari, ma sua madre era riuscita a scovarlo un attimo prima che s'imbarcasse. Da allora, tutta la sua esistenza è stata un susseguirsi di tentativi falliti: l'ultima volta non ha fatto neanche in tempo a bagnarsi i piedi. «Non me la sento» ha detto allo scafista incredulo, ed è rimasto sul gommone fino a casa, in Albania. Adesso ha davanti una lunga estate fatta di attesa, lavoretti malpagati e progetti imprenditoriali assurdi insieme ai soliti amici – Sulejman, intento a comporre un romanzo su una vecchia macchina da scrivere piazzata nel cortile, e Gjokë, che si divide tra il bar e il biliardo senza mai togliersi giacca e cravatta. C'è anche Irena, bellezza in bicicletta: Ujkan la insegue, la sogna, la cerca, lei minaccia di sparargli ma poi non spara mai. Mentre l'Italia resta sullo sfondo, raccontata da tutti senza che nessuno abbia davvero voglia di andarci, Elvis Malaj ci trascina in un gioco letterario spassoso e raffinato, in cui tra depistaggi, giri a vuoto e false partenze si diverte a stupire i lettori e li accompagna, con la sua voce originalissima, verso l'inatteso, scoppiettante finale.

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Dettagli

2020
26 maggio 2020
240 p., Brossura
9788817146395

Voce della critica

La prima volta che vediamo Ujkan è su un gommone, vicino alla costa italiana: tra poco scenderà e cominceranno duecento pagine di un romanzo sull’immigrazione, sulla difficoltà di integrarsi, sui prevedibili ostacoli che ognuno incontra quando è costretto ad andarsene di casa e a ricominciare da qualche altra parte. Ujkan è immobile, guarda il mare; tutti gli altri si sono già tuffati. Scendi, gli dice lo scafista, ma Ujkan non scende. Se ne sta immobile mentre la sua storia lo aspetta a pochi passi.

E alla fine: non scende. Il nastro si riavvolge. Ujkan torna in Albania. Scopriamo che non è la prima volta che è partito alla volta dell’Italia per poi rinunciare all’ultimo. E allora, ci diciamo attraversando le prime cinque o sei pagine, può darsi che non si tratti di un qualsiasi romanzo sull’immigrazione, ma di qualcosa di un po’ più sofisticato. Un romanzo intimo, sull’inquietudine di un giovane che non sa costruire il suo futuro o forse non vuole costruirlo; che ha una strada, non è granché ma ce l’ha, e tuttavia preferisce rimanere fermo.

Continuiamo la lettura e ci rendiamo conto che l’inquietudine c’è, senza dubbio, ma rimane sotterranea, un calore appena intuibile sotto una superficie di sabbia. È qualcos’altro a prevalere. Più che strillarci le verità umane che contiene, il romanzo ci sta facendo chiacchierare: a bassa voce, amabilmente, con un sorriso ironico. È un cazzeggio spensierato, freschissimo, che ti fa sentire proprio contento di trovarti questo libro tra le mani, anche se forse ti aspettavi altro. Sei in mezzo ad albanesi in giacca e cravatta che guidano macchine scassate, ragazze bellissime che ti puntano la pistola alla testa, adolescenti esaltati che progettano rapimenti e fughe d’amore: e tutto sommato questa compagnia ti piace.

E allora eccola, la storia: un ragazzo inquieto si innamora di una ragazza che è più sfrontata, più esperta, più astuta, più inquieta di lui. È una storia d’amore come tante, senza particolari sorprese – una storia semplice e pulita, ma non è questo il punto. Il bello sta nel tono: nell’atmosfera picaresca, nell’aria da meravigliosi sfigati che circonda i personaggi, nei guai che Ujkan deve passare per avere la sua ragazza. Il bello sta nei movimenti di macchina, in quegli slittamenti di punto di vista realizzati talmente bene che quasi non ce ne rendiamo conto e che ci permettono di vedere intorno a Ujkan una foresta di fuochi d’artificio, un’esplosione di vita. C’è un sacco di roba, qui dentro: e il fatto che sia così magistralmente contenuta in sole duecento pagine è qualcosa che non può non sorprendere.

Leggendo il romanzo di Elvis Malaj ho pensato questo, che c’era un sacco di sapienza artigianale, ma di quella timida, celata, che non è neanche detto che tutti se ne accorgano. Ma c’è. Lo dico perché spesso i ragazzi della mia età – i nati, diciamo, dopo il ’90: e mi riferisco a quelli che vogliono diventare scrittori – fanno esattamente il contrario: si convincono di avere grandi capacità (solo io scrivo bene, gli altri fanno quello che possono) e questo fraintendimento li fa sentire in dovere di sbattere in faccia al mondo il proprio talento – a quel mondo crudele che non li capisce e non li apprezza. Il risultato di solito sono romanzi che nella migliore delle ipotesi sono complicati e nella peggiore sono senza né capo né coda, senza un valore oggettivo se non quello che rimane chiuso nella testa di chi li ha scritti.

Invece Malaj – che magari poi nella vita è un vanesio, antipatico e pieno di sé: chi lo sa – dimostra la maturità di partire dal basso, di scrivere con le due o tre cose che ha, senza fare troppe complicazioni, eppure mantenendo un alto grado di letterarietà. Dimostra la competenza artigianale di tirare fuori duecento pagine che si leggono d’un fiato: perché se un romanzo è facile da leggere, vuol dire che l’autore ci ha sbattuto la testa sopra; ci ha messo dentro tutta l’energia, l’ironia, la gioia di scrivere e poi ha ripulito, rifinito, riscritto per mesi (anni?), per chissà quante volte.

Se devo mapparlo tra le mie letture posso dire che questo libro mi ha ricordato le atmosfere di Pennac e la sottigliezza di Salinger. Mi ha fatto pensare un po’ a Grandi speranze e a La vita davanti a sé. Alla letteratura che non ha l’ansia di sembrare sofisticata. Penso che Malaj possa diventare uno degli scrittori più interessanti della mia generazione – a dire il vero penso anche un’altra cosa, e cioè che possa scrivere libri che vendono – ma siccome sono certo che se leggesse queste cose mi prenderebbe per il culo e si gratterebbe pensando che gliel’ho gufata, mi fermo qui. Non c’è molto da dire, se non che Il mare è rotondo è un libro niente male e che me lo sono letto tutto.

Recensione di Pierpaolo Moscatello

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