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Marcitero - Nino Vetri - copertina
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Marcitero - Nino Vetri - copertina

Descrizione


Irrazionalità, spregiudicatezza, violenza e stoltezza muovono le azioni dei pochi abitanti di Marcitero, un minuscolo borgo in collina, lontano da itinerari turistici e da sussulti culturali. Una piccola e bizzarra comunità fuori dal tempo che alimenta ogni giorno il proprio disprezzo verso l'altro e con lucida follia persegue il sogno di una totale indipendenza dal resto del mondo. Unica regola di vita: il rifiuto del bello in ogni sua forma. Vetri dà struttura e sostanza all'idiozia umana. La osserva, non la interpreta e non la giudica, la racconta con la consueta maestria e originalità.
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Dettagli

2021
28 gennaio 2021
144 p., Brossura
9788898447732

Voce della critica

Una scorribanda irresistibilmente spassosa è la letteratura secondo il palermitano Nino Vetri, libraio, musicista, scrittore di valore. Appartato e originale, alcuni libri tradotti all’estero, e uno tutto nuovo che ridefinisce ulteriormente il mondo dei suoi titoli, quello di un percorso quasi ventennale, iniziato anche grazie a uno dei suoi primi mentori, Gaetano Testa, nell’officina Perap. A Testa, che aveva lodato molto i suoi primi lavori probabilmente non saranno dispiaciute le pagine del gioiello Marcitero (139 pagine, 12 euro), nuovo racconto di Nino Vetri per l’editore Il Palindromo, come il precedente Suite per quarti di vacca (di cui abbiamo scritto qui).

Tutti gli eccessi chiassosi e pittoreschi che Vetri afffibbia ai tanti protagonisti di Marcitero – piccolo omonimo villaggio, frazione di un Comune maggiore, da cui gli abitanti vorrebbero rendersi indipendenti – sembrano una neanche troppo velata fotografia di certa realtà. E se, invece, che una grottesca parodia del mondo (della Sicilia, perché si intuisce qua e là il borgo descritto è siciliano…), Marcitero fosse un esercizio di iperrealismo? Alla maniera di certi libri di Ottavio Cappellani, surreali ed eccessivi all’apparenza, opera di un «verista verghiano» secondo il loro stesso autore. Vetri immagina poche casupole in pietra, un diffuso pattume per le strade, che aumenta lasciando il borgo e inoltrandosi nella vicina montagna, figure dedite al turpiloquio (consuetudine anche nei saluti e nei convenevoli che si scambiano gli abitanti di Marcitero), alle imprecazioni urlate, che hanno in odio la pulizia e la bellezza, che auspicano pene corporali a scuola, che se le danno di santa ragione (al Circolo della fratellanza o anche, come da tradizione, durante la processione del Venerdì Santo) che coltivano idee agghiaccianti: per esempio portare il mare a Marcitero, cavallo di battaglia di un aspirante sindaco, Brillantina (qui un brano di Marcitero), a costo di abbattere un’antica abbazia, pur di attirare i turisti e i loro soldi; o eliminare una costruzione liberty per sostituirla con una sala bingo; o creare una improbabile razza canina locale (il risultato? «Sembrava un cinghiale a pelo lungo con la testa di chihuahua»)

Narratore del racconto è un visitatore del villaggio, che si rende conto pian piano della realtà parallela in cui finisce per trovarsi, quasi per caso.

Il narratore registra cosa accade, dà voce a Becco, Dracula, Ping Pong, Brillantina, Borsetta, Serpe, Bombo, al fantasma di Rosso, sorta di misterioso supelatitante mafioso («È nascosto da qualche parte, non si allontana dal paese. Sarà in montagna, ad un tiro di scoppio. E sarà già a conoscenza di tutto. E se così fosse, per noi sarebbero problemi seri») che costringe a una “prigionia” tra casa e balcone, con sguardo al cielo, la bella ragazza bruna che ha scelto e talvolta canta nenie strazianti per esprimere il proprio dolore da “sepolta viva”.

I bozzetti, spesso comici, talvolta tragici, via via compongono un quadro a cui Nino Vetri non manca probabilmente di dare anche un significato politico. È un paese per vecchi, Marcitero (novantadue abitanti di cui quarantatré ultrao ottantenni), ma non per le minoranze («In genere si dava la colpa dei furti ai due ragazzi del Ghana e a quello zingaro sperduto che viveva in paese»). E dove ci sono bestie tutt’altro che apprezzabili chiamate rufine, animali simili ad aragoste di colore gialloverde (curiosamente i colori del terzultimo governo) che dominano la montagna vicino al borgo, dove vengono scaricati liquami e materiali di risulta. La profezia non proprio nascosta dell’opera di Vetri è un finale quasi scontato per una simile “civiltà” (la nostra) che non intende tornare indietro ma avanzare sempre verso il precipizio: l’autodistruzione, l’estinzione, un inevitabile cumulo di macerie.

Recensione di Salvatore Lo Iacono

 

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