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La fine dell'altro mondo
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La fine dell'altro mondo - Filippo D'Angelo - copertina
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fine dell'altro mondo

Descrizione


Ludovico Roncalli, dottorando in Lettere, è un ventottenne della Genova bene che ha trovato nella ricerca universitaria la conferma più fedele della cialtronaggine nazionale, nella famiglia un perenne esercizio di sadomasochismo, e nei coetanei - carrieristi o emarginati che siano - la testimonianza di un gigantesco fallimento generazionale. Erotomane per disperazione, prossimo al baratro dell'alcolismo, Ludovico vive l'unica autentica complicità nella sorella minore Umberta, alla quale lo lega una reciproca e impossibile attrazione incestuosa. Quando si metterà sulle tracce di un testo andato perduto (la fine di un romanzo utopico scritto da Cyrano de Bergerac), crederà che dalla letteratura possa iniziare il suo riscatto professionale e quindi umano. Peccato che l'estate in cui si svolge la vicenda sia quella del 2001: la follia del G8 genovese sconvolgerà la città e ogni progetto di Ludovico. Esordio di uno scrittore capace di incastrare comico e tragico, "La fine dell'altro mondo" è anche il feroce de profundis alzato a un'epoca che non è stata all'altezza nemmeno dei suoi più modesti proponimenti.
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Dettagli

2012
16 maggio 2012
336 p., Brossura
9788875211806

Valutazioni e recensioni

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Gialloy
Recensioni: 1/5

scrittura pedante e faticosa. si vede che la mano è dello studioso, come il protagonista, e non di uno scrittore...

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Voce della critica

Il protagonista di La fine dell'altro mondo, il romanzo d'esordio di Filippo D'Angelo, si chiama Ludovico Roncalli: è un ventottenne dottorando di letteratura francese che vive tra Parigi e Genova, dove è nato e dove abita la sua famiglia. Il suo campo di studio è il Seicento libertino: l'"altro mondo" del titolo allude, tra le altre cose, all'omonimo romanzo di Cyrano de Bergerac, postumo e incompiuto, diviso in due parti (Gli stati e imperi della Luna e Gli stati e imperi del Sole). Di quest'opera Ludovico ritiene di aver scoperto una redazione alternativa, comprensiva del finale: la ricerca di un esemplare completo lo spinge in Francia, in Russia e infine proprio a Genova, nei giorni fatali del famoso G8. Descritta in questo modo, per sommi capi, sembra la cornice narrativa di un tipico, micidiale "romanzo del professore", tinto magari di giallo o di nero, in equilibrio tra satira, divertissement e denuncia sociale. Non è così. Se è vero che il comico è uno dei registri del libro, è anche vero che l'ironia è crudele e autodistruttiva, e che l'impianto del libro è quello dell'autodafé; la ricerca erudita del finale sconosciuto non è che il guscio parodistico di un regolamento di conti tutt'altro che accademico, e anzi concretissimo e rabbioso, di quelli che la nostra narrativa aspettava da tempo. Forse proprio da dieci o dodici anni, da quando cioè alla generazione di Ludovico, che è poi la stessa dell'autore, cominciò ad apparire chiaro l'ineluttabile; e cioè che l'ingresso nel nuovo millennio coincideva con il rogo definitivo di tutte le certezze sulle quali quella generazione aveva creduto ingenuamente di poter scommettere. Se le cose stanno così, non stupisce che il primo regolamento di conti che il romanzo consuma investa proprio il rapporto con la famiglia, laboratorio e lager di ogni futura aspettativa filiale. La fine dell'altro mondo si presenta come una violenta requisitoria contro i Padri (e forse soprattutto contro le Madri, carnefici più generose e più accurate). Specificamente, contro i genitori biologici di Ludovico, agiati professionisti, vittime entrambi di una descrizione velenosa di interno altoborghese. Più in generale, contro la classe dei baby boomers, specialisti della contraddizione e della falsa coscienza: tutti i giovani personaggi principali del libro vengono da famiglie sessantottine integrate ma agonizzanti; il massacro immaginario dei nati tra il 1945 e il 1955 (il decennio durante il quale sono venute al mondo "le personalità italiane più distruttive") occupa una delle pagine più divertenti e fervide del libro. Ma ancor più complessivamente la requisitoria riguarda forse la Natura, di cui la famiglia borghese è emblema derisorio: nella sua finzione di un progetto ordinato, nella messa in scena di unioni votate all'armonia e al consenso, nell'ipocrisia con cui annienta fingendo di educare. Non a caso, il paradiso inaccessibile, il vero "altro mondo" adombrato dal romanzo è quello dell'unione incestuosa, spesso sfiorata ma sempre incompiuta, tra Ludovico e la sorella Umberta; e non a caso, il protagonista in visita alla Galleria Tretyakov rimane colpito dalle icone medievali che raffigurano la Dormizione, schema iconografico in cui una madonna senile e defunta viene assunta in cielo da suo figlio, trasfigurata in una bimba in fasce. Rovesciamenti, inversioni e sdoppiamenti ironici: queste le armi un po' spuntate con cui il protagonista combatte la sua battaglia contro il cosmo. Armi culturali, logiche simboliche; proprio la cultura ‒ rovesciamento ulteriore ‒ è l'oggetto dell'altra vendetta che il romanzo consuma. L'umanesimo, per Ludovico, è ormai solo "l'anacronistico abbaglio d'individui votati all'estinzione": ma come i figli, nel romanzo, non sono affatto meno marci e disadattati dei loro genitori, così a sentirsi e a essere dei dinosauri non sono solo i vecchi professori alle soglie della pensione, ma anche i giovani che dovrebbero prenderne il posto, "catapultati per sbaglio da una decrepita adolescenza a una senilità prestante". Del resto l'università, o le biblioteche ‒ "piramidi erette alla vanità dei più mediocri e risentiti tra gli individui" ‒ sono solo un esempio possibile, per il protagonista, dell'insensatezza del passato culturale. Il presente e il futuro somigliano a un dopobomba popolato da cannibali, gli adolescenti di oggi e di domani. Il romanzo li descrive con un misto di smarrimento e di euforia, gli stessi opposti sentimenti che Ludovico, "da sempre sensibile al fascino del doppio", sperimenta con due escort gemelle omozigote all'interno dell'Hungry Duck, club moscovita paradigma della socialità del nuovo millennio ("L'ecstasy era la sola realizzazione possibile del comunismo"). Il fallimento della cultura nel comprendere il mondo combacia allora con il fallimento della politica nel cambiarlo in meglio: l'"altro mondo" è anche quello che non riusciamo, che non aspiriamo veramente a realizzare. Dalle ceneri del G8 ‒ terzomondialismo d'accatto, rivolta scenica e irreale, brutale repressione poliziesca ‒ si prepara "un'epoca di servitù volontaria per un mondo senza veri padroni", in cui l'Italia sopravvive come zoo postmoderno, o parco a tema ("Un luogo, nonostante le amene apparenze, oppressivo e concentrazionario, asfittico e spietato"). Così il collasso dell'umanesimo e la fine della politica possono saldarsi alla gigantesca regressione sentimentale di Ludovico: la sua ripulsa per l'amore convenzionalmente inteso ("Sotterraneo labirinto di prevaricazioni e rinunce"); la deriva pornografica, sadica e intransitiva dei desideri che riesce a realizzare ("Era dall'inizio della relazione con Marta che non leggeva un libro per intero. Si chiese se la loro passione erotica fosse l'origine o l'esito del suo rifiuto ormai radicale per ogni forma di cultura"). È bello e giusto che La fine dell'altro mondo esca a pochi giorni di distanza dal nuovo romanzo di Siti (esplicitamente citato, e messo in salvo, insieme a Busi, dall'eccidio immaginario: padri impossibili, modelli reali di scrittura e di scarnificazione). Bello, perché dimostra che la rovina del paese può benissimo alimentare una letteratura capace di rappresentarla, e quindi contraddirla. Giusto, perché è il segno che padri e figli ‒ o almeno certi padri e certi figli ‒ possono riconoscersi e darsi tregua almeno nel campo immateriale ma alla lunga decisivo del romanzo. Entrambi i libri liquidano speranze sbagliate, vecchi equivoci e nuove controverità. Non indicano soluzioni, certo; non fingono di sapere come se ne esce. Ma chi è che lo sa? Gianluigi Simonetti

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