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Le donne amate
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Le donne amate - Francesco Pacifico - copertina
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donne amate

Descrizione


Con sguardo sincero e premuroso, Francesco Pacifico tratteggia cinque ritratti che corrispondono ad altrettanti modi di intendere la femminilità.

Nei grandi romanzi di maschi, gli uomini si agitano, sbagliano, si sbattono in un flipper in cui le donne sono le sponde che squillano e baluginano appena toccate; appariscenti e cruciali, tanto che sembrano protagoniste - in realtà sono pura funzione della pallina di metallo dell'uomo.

Prima che arrivino i quaranta, Marcello, editor e poeta, sogna di scrivere un romanzo in grado di sottrarsi a questo paradigma. Un'impresa tutt'altro che facile, perché raccontare una donna, per un uomo, significa mettersi in discussione e confrontarsi con un oggetto oscuro, sfuggente, inaccessibile come l'antimateria. Ci sono però delle donne che più di altre gli hanno concesso di avvicinarsi: le donne della sua vita, quelle che ama, quelle che ha amato. Così Marcello decide: saranno loro le protagoniste del libro. Eleonora e Barbara, presenze costanti e inconciliabili, al punto che è difficile stabilire chi sia la moglie e chi l'amante; la cognata Daniela, materna e accogliente nonostante le sue insicurezze; la sorella Irene, solida e generosa, con un fisico in transizione perenne; infine la madre, la prima donna, quella che sempre dà origine a tutto. Con sguardo sincero e premuroso, Francesco Pacifico tratteggia cinque ritratti che corrispondono ad altrettanti modi di intendere la femminilità. Ed è proprio attraverso di loro che, come un illusionista, riesce a mettere in luce, senza mai mostrarla, la parte più vera e fragile di ogni uomo.
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Dettagli

2018
27 febbraio 2018
311 p., Rilegato
9788817098922

Voce della critica

Vent’anni fa, nel dilaniare Verso la fine del tempo di John Updike, David Foster Wallace coniò la definizione di “Grande Maschio Narcisista”, che includeva anche Roth e Mailer: autori ancora convinti che il sesso potesse essere “cura per la disperazione in quanto tale”.
Dopo il collasso – almeno simbolico – del patriarcato, amore e sesso hanno continuato a essere strumento d’indagine sul sé, ma in un modo che è rapidamente mutato, come dimostrano tre romanzi appena usciti, Le donne amate di Francesco Pacifico, Cometa di Gregorio Magini e Le stelle cadranno tutte insieme di Iacopo Barison, che li tematizzano secondo declinazioni echeggianti le ultime generazioni passate dal 900: Pacifico e Magini (1977 e 1980) sono divisi da soli tre anni, ma il primo pare appartenere, per piglio, più ai “baby boomer” che alla “generazione X”, mentre Barison (1988) aderisce in pieno ai “millennial”.
Nelle Donne amate, l’amore è anzitutto aspirazione a una realtà che sia al tempo stesso soddisfacente e sotto controllo: il protagonista Marcello viene tratteggiato attraverso cinque “atti” e altrettante donne, di cui solo due afferiscono a tale dimensione – moglie e amante sono quanto gli basta per confessarsi. Tra il teatro e la confessione c’è lo psicodramma alla Gurdjeff: una messa in scena del sé attraverso le altre, volta a stabilizzarlo (cosa che avviene anche grazie alla sublime compostezza della lingua), nella consapevolezza che la realtà finirà per sfuggire, e lo dimostra la struttura stessa, la quale, muovendosi secondo l’asse amante-moglie-cognata-madre, suggerisce che all’esplosione dei ruoli, un maschio ancora novecentesco può rispondere solo con un movimento regressivo.

Vanni Santoni

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“La granulosa luce pomeridiana veniva cancellata dai lunghi neon”. “Le luci dei palazzi che con discontinuità si arrampicavano dall’Appia sui castelli romani”. “A Milano invece l’ora del negroni non era fatta di luce ma di palazzi anni Cinquanta e anni Dieci”.

Marcello, protagonista delle Donne amate di Francesco Pacifico, è un ex poeta e ora editor di un’importante casa editrice (uno “scrittore manager”), non tanto scisso e indeciso se abbracciare oppure no il lato oscuro della forza, quanto incapace di trattenere a lungo la luce che desidera, ma disperatamente bravo a saperne distinguere ogni minima variante cromatica.

Le sue donne amate (moglie, sorella, madre, cognata, amante) ampliano lo spettro prismatico, e la luce deflagra verso una consistenza così sfuggente da diventare la forma più radicale di vitalità: “La donna catturata col retino della prosa viene fissata alla carta con uno spillo (…) Il suo volo è stato così leggero che non so come metterlo sotto vetro e conservare quella grazia, o un’impressione di quella grazia”. Quando nei commenti all’uscita del cinema si dice che “la fotografia era bella”, lo prendiamo come un eufemismo per dire che il film non ci è piaciuto. Non so quando sia nato questo codice, né perché ci si ostini a reiterarlo, visto che un vezzo troppo diffuso – che sia ironico o meno – perde ogni qualità endogena, ma per quanto mi riguarda, funziona esattamente al contrario: se amo la fotografia, significa che mi sto godendo tutto il film. Non solo mi sento fuori dal codice, ma ho anche problemi a scindere “la fotografia” dal resto, a prosciugare le immagini da ciò che le ha rese tali, quasi a voler sfilare per dispetto la luminosità di un panorama, mentre siamo intenti a guardarlo.

Le donne amate di Francesco Pacifico ha una bellissima fotografia. Okay, stiamo parlando di un romanzo, per questo aggiungete al piacere una dose extra di disorientamento sinestetico. In un piccolo saggio che mi viene da consigliare a chiunque abbia voglia di scrivere, Seminario sui luoghi comuni, parlando dell’eredità che ci lasciano i classici, Pacifico dice: “Col passare dei decenni i dettagli dell’esperienza cambiano radicalmente, e molti termini e immagini – ‘pastrano’, ‘fiacre’, ‘dote’, ‘corsetto’ – diventano inutilizzabili”. Cosa utilizzare al loro posto? Porsi questa domanda non è un esercizio di stile, ma un’autocoscienza dello stile, “e queste sostituzioni inevitabili non trasformano per intero il paesaggio di un paragrafo, esigendo ritmi e sentimenti diversi?”.

Nelle Donne amate ci sono paesaggi che hanno la capacità di rendere una scena al tempo stesso contemporanea e classica. Per fare un esempio, nell’immagine di un uomo in treno potete ritrovare i viaggi nell’Ottocento russo, i pendolari di Mad Men, o un editor dei giorni d’oggi, compresso nelle tre ore di un Frecciarossa Milano-Roma, incubato dentro un’ansiogena macchina del tempo: “Come avrei sopportato di salire ogni settimana su un treno ad alta velocità, anch’esso avvolto nel vetro, tanto violentemente illuminato all’interno che quando rientravo a Roma la sera certe volte sudavo freddo per l’impressione di viaggiare nel vuoto mentre lo schermo appeso al soffitto avvisava che erano stati raggiunti i trecento chilometri all’ora e fuori dai vetri non si vedeva niente mentre lo scatolone di plastica e lega pieno di uomini e donne e telefoni prendeva velocità, visibile da tutta la campagna del centro Italia. Quell’assurdità di viaggiare per lavoro, senza l’anima”.

I trecento chilometri orari, gli uomini e donne al telefono fanno parte delle sostituzioni inevitabili, che vivificano l’assurdità di viaggiare per lavoro senza l’anima. Per questo è meno scontato di quanto possa apparire che pastrani o corsetti cedano il passo nel libro a scarpe da ginnastica (“costose”, “particolari”, “dalla suola bianca complicata e la tomaia nera in merletto sintetico”, “verde pennarello”, “con i lacci colorati”), o che “le brutte scarpe dei colleghi” mettano in crisi la tenuta e il senso della propria carriera lavorativa. O ancora che due scarpe affini stiano “tra le brutte calzature degli altri come i due innamorati in uno spettacolo di marionette”. La storia dell’ambizione individuale (qui quella di Marcello) – che ha permeato buona parte del romanzo borghese – passa anche per queste cose: per il dolore profondo (talmente profondo da sembrare quasi comico) di una luce sbagliata, o di veder violentata con il passare dei giorni la nostra aspirazione al bello.

Recensione di Veronica Raimo

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Francesco Pacifico in viaggio coi vetri appannati

Di ‘Le donne amate’ colpisce soprattutto la “fotografia”, che restituisce paesaggi che paiono immortali. Un uomo li attraversa, pieno di dubbi e di amori da comprendere.

  “La granulosa luce pomeridiana veniva cancellata dai lunghi neon”. “Le luci dei palazzi che con discontinuità si arrampicavano dall’Appia sui castelli romani”. “A Milano invece l’ora del negroni non era fatta di luce ma di palazzi anni Cinquanta e anni Dieci”. Marcello, protagonista delle Donne amate di Francesco Pacifico, è un ex poeta e ora editor di un’importante casa editrice (uno “scrittore manager”), non tanto scisso e indeciso se abbracciare oppure no il lato oscuro della forza, quanto incapace di trattenere a lungo la luce che desidera, ma disperatamente bravo a saperne distinguere ogni minima variante cromatica.
  Le sue donne amate (moglie, sorella, madre, cognata, amante) ampliano lo spettro prismatico, e la luce deflagra verso una consistenza così sfuggente da diventare la forma più radicale di vitalità: “La donna catturata col retino della prosa viene fissata alla carta con uno spillo (…) Il suo volo è stato così leggero che non so come metterlo sotto vetro e conservare quella grazia, o un’impressione di quella grazia”. Quando nei commenti all’uscita del cinema si dice che “la fotografia era bella”, lo prendiamo come un eufemismo per dire che il film non ci è piaciuto. Non so quando sia nato questo codice, né perché ci si ostini a reiterarlo, visto che un vezzo troppo diffuso – che sia ironico o meno – perde ogni qualità endogena, ma per quanto mi riguarda, funziona esattamente al contrario: se amo la fotografia, significa che mi sto godendo tutto il film. Non solo mi sento fuori dal codice, ma ho anche problemi a scindere “la fotografia” dal resto, a prosciugare le immagini da ciò che le ha rese tali, quasi a voler sfilare per dispetto la luminosità di un panorama, mentre siamo intenti a guardarlo.
  Le donne amate di Francesco Pacifico ha una bellissima fotografia. Okay, stiamo parlando di un romanzo, per questo aggiungete al piacere una dose extra di disorientamento sinestetico. In un piccolo saggio che mi viene da consigliare a chiunque abbia voglia di scrivere, Seminario sui luoghi comuni, parlando dell’eredità che ci lasciano i classici, Pacifico dice: “Col passare dei decenni i dettagli dell’esperienza cambiano radicalmente, e molti termini e immagini – ‘pastrano’, ‘fiacre’, ‘dote’, ‘corsetto’ – diventano inutilizzabili”. Cosa utilizzare al loro posto? Porsi questa domanda non è un esercizio di stile, ma un’autocoscienza dello stile, “e queste sostituzioni inevitabili non trasformano per intero il paesaggio di un paragrafo, esigendo ritmi e sentimenti diversi?”.
  Nelle Donne amate ci sono paesaggi che hanno la capacità di rendere una scena al tempo stesso contemporanea e classica. Per fare un esempio, nell’immagine di un uomo in treno potete ritrovare i viaggi nell’Ottocento russo, i pendolari di Mad Men, o un editor dei giorni d’oggi, compresso nelle tre ore di un Frecciarossa Milano-Roma, incubato dentro un’ansiogena macchina del tempo: “Come avrei sopportato di salire ogni settimana su un treno ad alta velocità, anch’esso avvolto nel vetro, tanto violentemente illuminato all’interno che quando rientravo a Roma la sera certe volte sudavo freddo per l’impressione di viaggiare nel vuoto mentre lo schermo appeso al soffitto avvisava che erano stati raggiunti i trecento chilometri all’ora e fuori dai vetri non si vedeva niente mentre lo scatolone di plastica e lega pieno di uomini e donne e telefoni prendeva velocità, visibile da tutta la campagna del centro Italia. Quell’assurdità di viaggiare per lavoro, senza l’anima”.
  I trecento chilometri orari, gli uomini e donne al telefono fanno parte delle sostituzioni inevitabili, che vivificano l’assurdità di viaggiare per lavoro senza l’anima. Per questo è meno scontato di quanto possa apparire che pastrani o corsetti cedano il passo nel libro a scarpe da ginnastica (“costose”, “particolari”, “dalla suola bianca complicata e la tomaia nera in merletto sintetico”, “verde pennarello”, “con i lacci colorati”), o che “le brutte scarpe dei colleghi” mettano in crisi la tenuta e il senso della propria carriera lavorativa. O ancora che due scarpe affini stiano “tra le brutte calzature degli altri come i due innamorati in uno spettacolo di marionette”. La storia dell’ambizione individuale (qui quella di Marcello) – che ha permeato buona parte del romanzo borghese – passa anche per queste cose: per il dolore profondo (talmente profondo da sembrare quasi comico) di una luce sbagliata, o di veder violentata con il passare dei giorni la nostra aspirazione al bello.

Recensione di VERONICA RAIMO

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Conosci l'autore

Francesco Pacifico

1977, Roma

Francesco Pacifico, nato nel 1977, ha pubblicato i romanzi Il caso Vittorio (minimum fax 2003), 2005 d.C. (con la Babette Factory, Einaudi Stile Libero 2005). Nel 2007 esce San Valentino, dove si racconta come il marketing e la poesia hanno travolto l'amore in Occidente (Fazi); nel 2012 Seminario sui luoghi comuni (minimum fax); nel 2014 Class. Vite infelici di romani mantenuti a New York (Mondadori), nel 2018 Le donne amate (Rizzoli) e nel 2023 Il capo. Scrive su varie varie testate tra cui "la Repubblica", "IL" "Il Riformista", "Nuovi Argomenti" e "Rolling Stone". È editor de "Il Tascabile" di Treccani e ha tradotto numerosi autori stranieri, tra cui Francis Scott Fitzgerald, Kurt Vonnegut, Henry Miller, Arthur Conan Doyle.

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