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Distorted fables - Deborah Simeone - copertina
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Distorted fables

Descrizione


Dall'autrice di una delle pagine Facebook più seguite e citate sul web, una fiaba moderna piena di ironia e invenzioni, un romanzo sincero e scoppiettante, che non potrà che divertire e appassionare i lettori.

«Che me ne faccio di un principe? A salvarmi ci penso da sola.»

C'era una volta, in un tempo non troppo lontano, una principessa dai lunghi capelli biondi e dai grandi occhi scuri... Che sia chiaro: la protagonista di questa storia non è la solita principessa delle fiabe. Non è né magra né alta, e neppure bella da far girare la testa. E poi con la gente è spesso intrattabile, dura e spigolosa, proprio come il suo nome, Rebecca. Per lei non ci sono castelli incantati, fatine o scarpette di cristallo, ma un monolocale umido in un condominio chiassoso, e lunghe serate passate in solitudine a guardare serie tv, con in grembo un gatto birmano e nella testa una valchiria-grillo parlante che la sprona a non darsi mai per vinta. Le cose cambiano, però, il giorno in cui Rebecca inizia a lavorare come portinaia in un bel palazzo nel centro di Milano. Qui, nonostante la sua avversione per i rapporti umani, la sua vita si intreccia con quella di alcuni condomini: un settantenne stravagante, ostinatamente aggrappato al ricordo della moglie, una giovane donna devota a un marito che la tradisce neanche tanto di nascosto e una ragazza stregata da un uomo freddo e calcolatore. Tutte fiabe d'amore, e tutte imperfette, come imperfetta è la vita di Rebecca, che ha smesso di credere al "vissero per sempre felici e contenti" nell'istante in cui il suo principe azzurro, anziché salvarla e poi giurarle amore eterno, l'ha mollata senza troppe spiegazioni a un binario della stazione. Ma chissà che Rebecca non scopra, anche grazie ai suoi nuovi amici, che proprio nell'imperfezione si nasconde il segreto per trovare qualche momento di vera felicità...
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Dettagli

2017
21 marzo 2017
175 p., Rilegato
9788804673330
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Indice

Le prime pagine del libro

C'era una volta dopo l'amore

Mi stava lasciando. O meglio, stava tentando di farlo ma non gli stava riuscendo molto bene. Cercò una scusa, quando io sapevo che la ragione era solamente una: non mi amava più. È l’unico motivo per cui le persone si lasciano.
Era stato il mio primo amore. Un primo amore trovato un po’ tardi, a diciotto anni. E non c’è nessun trauma particolare dietro la scelta di non avere relazioni prima di allora: semplicemente, non sono mai stata una fan sfegatata degli esseri umani.
«Non lasciarmi sola» gli sussurrai. «Posso cambiare» promisi.
Vidi un guizzo nel suo sguardo, quello di chi è ancora più consapevole della sua scelta e non tornerà sui suoi passi.
Mi stava lasciando dopo quattro anni di relazione in una stazione dei treni, che squallore.
Supplicandolo di restare non feci altro che spingerlo ancora più lontano da me. Era quello il punto, la ragione per cui si stava allontanando: io ero io, e per farmi amare sarei dovuta essere un’altra persona.
«Mi dispiace Rebecca, ti ho amato ma non me la sento di continuare questa relazione.»
Mentre un emisfero del mio cervello pensava “cristo, che scusa ridicola”, nell’altro successe qualcosa. Qualcosa che mi tolse anche quella poca forza di reagire che mi era rimasta.
“Ecco, un ictus” pensai, quando la luce sparì dai miei occhi e l’oscurità mi avvolse, “tra due secondi mi si paralizzeranno gli arti e cadrò in avanti con la faccia nelle rotaie.”
Ma non successe niente di tutto questo. Il buio diventò un po’ meno denso e riuscii a scorgere una luce fioca.
Nella penombra vidi una donna. Alta, i capelli lunghi e rossi, le spalle dritte e il portamento austero, vestita con un abito stretto in vita da una fusciacca. Avanzò in una stanza che non conoscevo, illuminata dalla luce pallida proveniente da due ampi finestroni. Il tetto della stanza era marcio, le pareti erano ricoperte da una carta da parati logora e strappata. In un angolo c’era un antico caminetto di mattoni scuri che sembrava aver visto ardere l’ultimo fuoco migliaia di anni prima. Pezzi di quella che mi sembrava un’armatura giacevano abbandonati sul pavimento sconnesso.
Mi trovavo in una stanza che stava cadendo a pezzi in cui guardavo una donna sconosciuta intenta a osservarmi mentre venivo mollata. E a quella scena irreale io assistetti come se fossi lì, da qualche parte sul soffitto. Come un pipistrello appeso tra i diademi di cristallo di uno sfarzoso lampadario d’antiquariato.
La donna si avvicinò alle vetrate antiche e impolverate e guardò ciò che vedevo io. Quelle finestre erano i miei occhi e quella stanza doveva essere la mia testa. Lei mi osservò mentre stringevo la giacca di Vincenzo e lo scuotevo con poco vigore mentre singhiozzavo.
«Quello è il mio treno.»
Il suono della sua voce, rimasta sepolta per lunghissimi minuti nel concerto dei miei singhiozzi, mi scosse dal torpore.
Mi guardai intorno. C’erano coppie che si abbracciavano dopo essersi rincontrate, mentre io ero lì a sperare in un suo cambio di programma, come se ritornare ad amare qualcuno richiedesse cinque secondi.
Avevo già capito da tempo che voleva lasciarmi, solo che avevo sempre sotterrato quella certezza come polvere sotto il tappeto.
Lo sapevo quando toglievo la SIM dal telefono credendo che l’assenza di una sua risposta dipendesse da un capriccio dell’elettronica. Non era così. È che non gli interessava la mia giornata.
Sapevo che voleva lasciarmi quando non si fermava mai più del previsto, non aveva mai perso nessun treno da quando stava con me. Anche in quel momento, in cui chiunque si sarebbe degnato di compiere un ultimo gesto gentile per la persona con cui aveva condiviso dei momenti importanti, anche allora non faceva altro che controllare l’orologio e guardare la curva alla fine dei binari in attesa della sagoma della locomotiva.
«Giuro che sarò meno lamentosa. Giuro che ti accarezzerò di più. Giuro che sarò più dolce.»
Stavo giurando di abbandonare me stessa per lui.
Vincenzo scosse la testa e mi abbracciò senza passione. Un ultimo abbraccio dal mio amore con cui credevo sarei potuta invecchiare. Infilai le mie unghie nel suo maglione e lo sentii accarezzarmi la spalla con freddezza.
Due abbracci diversi. Il mio disperato, il suo di liberazione, come se fosse pronto finalmente a iniziare una nuova vita.
«Arrivederci.»
Arrivederci un cazzo. Era un addio, e lo sapevamo entrambi.
Il treno si fermò stridendo, le porte si aprirono.
«Ti prego, ti prego, no» supplicai ancora una volta mentre lui metteva il piede sul predellino.
«Può ancora funzionare» dissi. La mia dignità aveva comprato un biglietto di sola andata per la Cina.
«È da tanto ormai che non funziona» sbuffò voltandosi. «Scusami.»
Le porte del treno si chiusero. Non si girò neanche una volta. Il treno partì e io restai immobile al binario 12, come se niente fosse capitato. Poi sentii le lacrime calde rigarmi le guance, le gambe mi cedettero e mi inginocchiai abbracciandomi da sola, spezzata.
Doveva essere una scena davvero pietosa se in una città come Milano, in cui notoriamente la gente tende a farsi i fatti propri, un paio di persone si avvicinarono e tentarono di rimettermi in piedi mormorando parole gentili. Io ero senza forze, così mi lasciai trasportare quasi a peso morto sulla panchina.

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Giulia
Recensioni: 5/5

Bellissimo libro, coinvolgente, spiritoso, vero e con tanti messaggi. Leggero ma non frivolo. Forse esiste una Crimilde che abita nella testa di ognuno di noi, o magari, semplicemente, vorremmo poter parlare con Lei per ritrovare un equilibrio che forse non abbiamo in alcuni periodi della nostra vita. Un grillo parlante che con ironia ci fa vedere sotto un’altra prospettiva le cose. E' facile rispecchiarsi nella ruolo della protagonista, un lavoro precario magari a tempo determinato, in contatto con tante persone, con l'aspirazione ad una libertà, stabilità magari non proprio semplice. La capacità di reinventarsi e non essere prigioniera del passato. Una storia singolare e coinvolgente, che fa sorridere ed emozionare allo stesso tempo. I retroscena dell’amore e la forza di essere, ad un certo punto della propria vita, forti per sè stesse, senza il bisogno di un “principe” in carne ed ossa o di una persona da cui dipendere perché illuse dalla certezza di aver trovato il lieto fine. Non sempre le cose vanno come ci immaginiamo e ripartire da sé stessi è l’unico modo per vivere la vita e osservare il mondo intorno a noi con occhi diversi. Essere tra le gente ci fa imparare a conoscere anche noi stessi. Ogni volta che ci confrontiamo con qualcuno, con persone diverse, inneschiamo dei rapporti che diventano poi, in alcuni casi, abitudini sane, punti di riferimento, come prendere il caffè insieme. Entrare nella vita degli altri vuole dire allo stesso tempo, far entrare anche gli altri nella nostra vita. Vuol dire mettere in dubbio e dare importanza a cose che magari prima, non lo erano. Ci fa crescere e apprezzare meglio le cose. Vuol dire interrogarci e soprattutto rispondere a quelle domande anche scomode. La lettera del Signor Glaudo è l’esempio di come si possa rinascere ad un certo punto della propria esistenza anche se si è, ormai, all’ultima fermata del proprio treno. Si diventa per gli altri qualcuno di importante, magari si è capaci di far rivivere un ricordo

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Cri
Recensioni: 5/5

Leggere qualcosa che ti appassiona è come tornare a casa ogni volta come se fosse la prima. È una storia vera, fatta di risate ma anche di delusioni, scivoloni, sbucciature perché la vita non è solo sole ma ha anche i suoi lati spigolosi. Mi sono affezionata a tutti i personaggi, in particolare al signor Glauco. Non vedevo l'ora di arrivare alla fine per scoprire tutta la storia ma all'ultima riga avevo in bocca un retrogusto agro-dolce. Mi è dispiaciuto lasciarli perché ho la curiosità di sapere cosa avviene dopo. Spero che Deborah scriverà un seguito perché son curiosa di sapere come proseguirà. Consigliato vivamente!

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Chiara
Recensioni: 5/5

Il mio giudizio è del tutto positivo verso questo libro: scorrevole, originale è ironico. Sono in disappunto con alcune recensioni che lo definiscono "prevedibile", a mio parere è tutto fuorché quello. Si capisce sin da subito che non è il classico romanzetto in cui, se anche nulla va come vuoi, l'amore trionfa su tutto. Ho apprezzato moltissimo il cinismo di Rebecca, il "corteggiamento" di Dante e il loro primo incontro. Per il signor Glauco poi, standing ovation. Consigliatissimo,in attesa del prossimo romanzo.

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Deborah Simeone

da diversi anni scrive d’amore su Facebook nella sua pagina "Distorted Fables". Anche lei, come la protagonista del libro, vive a Milano e fa la portinaia in un bel palazzo signorile. Quando non lavora e non va in palestra, si chiude in casa a scrivere, in compagnia dei suoi due gatti.

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