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La crisi che non passa. 16º rapporto sull'economia globale e l'Italia - copertina
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La crisi che non passa. 16º rapporto sull'economia globale e l'Italia
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Descrizione


La crisi in cui l'Occidente ha cominciato a scivolare durante l'estate del 2007 e nella quale è definitivamente precipitato nel settembre 2008 non solo non si è ancora risolta, ma se ne deve constatare l'estensione dall'economia alla società, alla politica, ai grandi equilibri politico-strategici internazionali. Il baricentro del pianeta continua a spostarsi verso est, la "primavera araba" ha rimesso in discussione consolidati equilibri (e potrà avere conseguenze inattese anche per quanto riguarda l'accesso alle risorse energetiche), le istituzioni che reggono l'ordine internazionale - dall'ONU all'FMI alla WTO - appaiono sempre più inadeguate al compito. L'Europa - e con essa, purtroppo, l'Italia in pole position - è al centro della crisi. La debolezza della finanza si mescola alla debolezza delle istituzioni, mentre la speranza che potessero bastare poche misure tecniche di stabilizzazione dei mercati ha ormai ceduto il passo al convincimento che la crisi sia complessa e multidimensionale: non si potrà tornare a uno sviluppo stabile, in un contesto mondiale assestato, senza rimedi innovativi e regole nuove. Il volume contiene contributi di: Giorgio Arfaras, Anna Caffarena, Giorgio S. Frankel, Gabriele Guggiola, Pier Giuseppe Monateri, Giuseppe Russo.
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Dettagli

2011
17 novembre 2011
200 p., Brossura
9788862503365

Voce della critica

  Il XVI Rapporto sull'economia globale e l'Italia, curato da Mario Deaglio (con contributi di Giorgio Arfaras, Anna Caffarena, Giorgio S. Frankel, Gabriele Giuggiola, Pier Giuseppe Monateri e Giuseppe Russo), affronta il delicato e difficile periodo che stiamo vivendo che si potrebbe sintetizzare in un tanto laconico quanto rassegnato mala tempora currunt. Dal punto di vista del metodo il libro si ispira al principio caro a Luigi Einaudi e proposto nelle sue famose Prediche inutili (Opere. Vol. II, Einaudi, 1950), del "conoscere per deliberare". Ogni decisione che riguarda la politica economica deve cioè fondarsi su un'analisi rigorosa e analiticamente coerente della situazione nella quale ci si trova e non deve affatto, trovandosi a dover maneggiare dati statistici relativi alle grandezze macroeconomiche, disdegnare di "sporcarsi le mani" con cifre e tabelle. Questo approccio è poi reso ancora più accattivante in quanto viene arricchito da una "visione" di fondo e di ampio respiro (quella che Schumpeter battezzava come condizione pre-analitica), presente spesso negli scritti di Deaglio e che è invece sempre più difficile riscontrare in molti economisti. Essendo il risultato della collaborazione di più autori, il libro presenta diversi piani di indagine (che ne costituiscono un ulteriore punto di forza), che vanno da quello strettamente economico a quello più politico fino a toccare, inesorabilmente, quello istituzionale. La tesi di fondo è che la crisi finanziaria, sviluppatasi negli Stati Uniti nel 2007 e poi diffusasi a livello globale, non è stata, come alcuni vanno ancora sostenendo (con ottusa ostinazione) un capriccio della storia, al quale si può solo rispondere con una stantia riproposizione della fiducia nelle forze auto-equilibratrici del mercato che, presto o tardi, metteranno tutto in ordine (nel lungo periodo, come Keynes ricordava con perfida ironia, siamo tutti morti!). La crisi è stata, al contrario, il risultato di un processo endogeno imboccato dal capitalismo negli ultimi trent'anni e che ha le sue radici negli squilibri di natura reale e, soprattutto, di natura finanziaria che si sono venuti a creare (in questo senso il presente rapporto è del tutto in sintonia con alcune delle tesi formulate da Luciano Gallino in Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011). Tali squilibri hanno cioè radici profonde e sono sorti grazie a una tanto progressiva quanto inarrestabile deregolamentazione dei mercati finanziari che si è retta sui risultati proposti da modelli economico-finanziari che predicavano l'efficienza (informativa, allocativa, di totale assicurazione, ecc.) degli stessi e che si sono rivelati, in seguito e ormai senza ombra di dubbio, tanto raffinati quanto irrealistici. Purtroppo, come rilevano Deaglio e i suoi collaboratori, dopo le prime troppo timide proposte di riforme, i vizi dei mercati finanziari sono tornati a essere più o meno quelli precedenti alla crisi del 2007 e la bolla legata ai famigerati mutui subprime è stata rapidamente sostituita da nuove bolle speculative che stanno interessando il prezzo delle materie prime e delle derrate alimentari e sono accompagnate da un revival negli acquisti, e quindi nelle volatilità delle quotazioni, dei titoli tecnologici. La situazione attuale è poi ancora più preoccupante dal punto dell'instabilità macroeconomica non appena si riflette sulle misure di politica economica adottate dal paese che è ancora leader mondiale (ovvero gli Stati Uniti), che sono state soprattutto di carattere monetario, dettate dalla necessità di salvare il suo ormai fragilissimo sistema finanziario. Tali misure mostrano infatti il fianco al fatto di non aver adeguatamente riguardato la politica industriale e ancor più quella fiscale (ciò anche a causa della feroce opposizione dei repubblicani nei confronti di politiche di deficit spending). Due sono però i pericoli, lamentati nel libro, legati alle attuazione delle sole misure di politica monetaria fortemente espansive: un ritorno del rischio inflazione, in presenza di elevata disoccupazione (stagflazione) e il fatto che l'abbandono, troppo rapido, delle politiche fiscali espansive sopra richiamate possa fare precipitare la situazione, gettando il mondo in una situazione simile a quella del 1937; allora, infatti, l'inizio della ripresa venne proprio strangolato dall'adozione di politiche troppo restrittive negli Stati Uniti. Non si può quindi che convenire con il senso del rapporto, secondo il quale la politica americana dovrebbe svolgere un ruolo cruciale nella risoluzione della crisi globale mostrando un maggiore senso di responsabilità rispetto alla situazione che si è venuta a creare; ciò è ancora più vero non appena si ragiona sul fatto che anche le potenze cosiddette emergenti, cioè la Cina e l'India, stanno dando i primi segni di rallentamento nella loro inarrestabile crescita. La prima mostra addirittura i primi segnali di fragilità in campo finanziario, essendo anch'essa investita da una bolla immobiliare la cui evoluzione preoccupa molto le autorità finanziarie cinesi. Gli scenario aperti e discussi in questo XVI Rapporto toccano poi il contesto europeo, e affrontano il problema della crisi dei debiti sovrani e quindi anche la situazione italiana. L'Italia, come noto, arrancava già prima che la crisi la lambisse e scatenasse gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico, facendo lievitare gli spread sui tassi di interesse e mettendo a rischio la stessa solvibilità del nostro paese. La seria possibilità di una crisi finanziaria, dagli esiti facilmente prevedibili, ha quindi fatto peggiorare una situazione che era già preoccupante soprattutto a causa della prolungata assenza di riforme strutturali che potessero favorire la crescita economica. Anche l'instabilità politica presente nel labirinto mediorientale e in parte dell'Africa subsahariana, dove molte popolazioni hanno giustamente incominciato a dare segni di insofferenza verso i loro governi, avvalora la tesi che ci aspettano anni di ulteriore instabilità globale. Il demone dell'incertezza, come lo chiama Deaglio riprendendo il terzo atto del Giulio Cesare di Shakespeare, è libero e può quindi prendere qualsiasi direzione. Questo rende il campo delle previsioni economiche minato da una radicale imprevedibilità. Che fare dunque? Ci dobbiamo per forza rassegnare? Per rispondere a questi assillanti interrogativi il rapporto mette in campo una serie di opzioni politiche tutte molto plausibili e che toccano il più rilevante, a mio avviso, dei problemi di fronte al quale si trova l'economia globale: mi riferisco al problema del vuoto istituzionale che, per miopia politica dei singoli paesi e soprattutto per l'assenza di un'agenda autenticamente internazionale, ci sta condannando a una crisi persistente che sembra non voler affatto passare. Lo spiraglio che sembra intravedersi nelle ultime pagine del rapporto, al fine di superare questa impasse, riguarda l'ormai non più procrastinabile riforma degli asfittici organismi internazionali: Fondo Monetario in testa, ma anche la Banca Mondiale per non parlare, poi, delle istituzioni europee. Le pallide, e talvolta contraddittorie, risposte che finora sono state date o suggerite da coloro che guidano queste istituzioni non sembrano infatti aver sortito gli effetti desiderati. Lino Sau

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