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Mercy, Sly Girl, Z, Mac e Kayos sono cinque ragazze adolescenti che si uniscono in una gang a Vancouver, dove il fenomeno delle bande (e dei senzatetto) è il più sviluppato del Canada. È proprio dall’esperienza in un’altra gang, quella dei Vipers, che Mac decide di fondarne una di sole donne, massimo cinque, come le dita di una mano da stringersi, all’occorrenza, in un pugno da sferrare contro le imposizioni della società: “Sono ombre che scivolano nella notte. Sono bestie con le bandane. Sono spietate. Sono astute. Sono brutali e violente. Sono reattive. Sono armate. Devono uccidere, o saranno uccise. Sono ricercate. Sono identificate. Sono cacciate come cani randagi. Sono rispettate e temute. Sono arrabbiate. Sono affamate. Non accettano un no come risposta. Sono professioniste qualificate. Sono immuni alla sofferenza. Sono più dure del cemento. Sono autosufficienti, autonome, ed egoiste. Reclamano diritti su tutto. Non hanno paura di nulla. Sono ben armate ed estremamente pericolose. Cercano vendetta. Sono qui per trovare e annientare. Non sono dispiaciute. Sono il futuro”. Tuttavia Girl gang non si concentra sullo stereotipo del fenomeno dei baby gangster, bensì rileva, attraverso una narrazione in soggettiva, la fragilità e i desideri inevasi di una generazione che non trova più senso e conforto nei valori preconfezionati dal sistema. Ognuna di loro rappresenta una solitudine rumorosa che mette a fuoco un’impotenza, lascia trapelare un trauma, confessa un desiderio, insegue una speranza che sfugge qualunque canone e che proprio per questo è destinata a fallire. Non a caso, la sesta voce narrante nel romanzo è quella della città, allo stesso tempo madre e carnefice di tutte le sue creature: “Le ho viste giocare e roteare sulle transenne in un parco erboso. Le ho viste sbucciarsi le ginocchia e gonfiare gomme da masticare e fare corone di fiori e collane di conchiglie. Ho visto le loro bocche restare spalancate e meravigliate per le dimensioni di un albero, per il viola vibrante di una stella di mare, per un branco di oche che bloccano il traffico sul ponte che chiamano Lions Gate. Le ho sentite raccontare alle loro madri l’infinito amore che sentivano per loro. Ma adesso non lo fanno più, non fanno più niente di tutto questo. Ora rubano e scippano e vendono alle persone la loro medicina preferita. Il loro respiro diventa scia d’argento nell’aria mentre fumano sigarette e camminano velocemente -troppo velocemente- su queste strade. Queste, le mie ciniche strade. Dove le persone si incontrano, piangono e muoiono nei vicoli, ogni singolo maledetto giorno. Sapevo che queste ragazze sarebbero finite qui? Così, in questo modo? Forse. Ma cosa avrei potuto fare? Cosa posso fare se non osservare? E tenere dentro tutto. So che vogliono ancora essere amate. So che c’è la paura che brilla negli angoli dei loro occhi. So che altri diventeranno quello che loro adesso sono”. Girl gang di Ashley Little ha il pregio di costituirsi metafora di un meccanismo pericoloso della nostra contemporaneità: la chiusura totale o parziale (ovvero apertura solo su invito e solo a determinate condizioni di similarità) verso l’altro, l’impossibilità di sciogliere il pugno in una mano tesa, a esclusivo danno di sé stessi.
Recensione di Roberto Di Pietro
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