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Anno edizione: 2015
Anno edizione: 2021
Anno edizione: 2021
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Libro acquistato al SalTo 2024, preso in mano molto a caso. Ho scoperto un'opera di letteratura moderna estremamente interessante, profonda e al tempo stesso piacevole da leggere. Ogni parola si percepisce benissimo sia ricercata e voluta. Ottima lettura
La storia di Adelmo Farandola, tratta da un episodio cui è stato protagonista Claudio Morandini e definito da lui stesso trascurabile (un’avventuretta da niente), parla alle nostre coscienze. Ci commuove Adelmo Farandola: lo fa la sua pazzia quanto la sua solitudine, che lo porta a non riuscire più a esprimersi. Anche il titolo richiama l’idea di un uomo che ha ben presente nella mente alcune parole, ma non riesce a collegarle con una frase di senso compiuto. La tenerezza nei suoi confronti è tanta quanto la ripugnanza per gli stimoli olfattivi che la scrittura ci restituisce. Con uno stile essenziale e schietto e scene vivide al limite della crudezza, l’autore ci accompagna all’interno del dramma della solitudine e del disagio mentale. Temi presenti anche nella nostra società e che facciamo finta di non vedere perché ci creano imbarazzo: un libro senz’altro da leggere per riflettere.
Leggere nella propria lingua madre è l'esperienza più bella, soprattutto quando l'autore scrive in quella stessa lingua (e non è in traduzione) e soprattutto quando quell'autore con limpidezza, chiarezza e precisione riesce a raccontare in poche pagine una storia tanto intelligente, interessante e bella. Perché è meraviglioso Adelmo Farandola, è straordinaria la sua esperienza di vita, e a me sarebbero bastate tre parole per scegliere questo libro: dialogo col cane. Sono una patita di cani, di ogni specie, ed ogni volta che un cane ha un "ruolo" in un libro, per me l'esperienza di lettura migliora del 50% (senza esagerare). E questo nostro compagno era simpatico, veramente cane e veramente compagno, veramente ben tratteggiato, con un'esperienza ben consapevole delle abitudini e delle motivazioni dei cani. Adelmo Farandola è un eremita e a me verrebbe da dire che la sua è stata quasi una scelta obbligata al tempo, la motivazione si è persa nella memoria labile di Adelmo. Vive fuori dal mondo, dove si trovano gli ultimi scampoli di vita, e per questo non perde la sua umanità. Certo, Morandini avrebbe potuto scrivere semplicemente di un sociopatico, che non riesce a far altro che tirar sassi contro gli sconosciuti e ammazzare le bestie con cui si nutre, ed invece non è così. È un vecchio profondamente sfibrato dalla vita, dalla guerra, dal dover rifugiarsi per avere in salvo la vita, e questa condizione non si è mai separata da lui -- vivere lontano da tutti ormai è più sicuro, sopravvivere con le proprie sole forze è più affidabile. Ma non è completamente pazzo, completamente crudele, completamente fuori dell'umano. Riuscire a creare un personaggio al limite (al limite tra sanità e pazzia, al limite tra sopravvivenza e crudeltà) è stata probabilmente un'impresa, ma ben riuscita e che dovrebbe essere ben ricompensata. Leggete tutti Neve cane piede e ricordate un po' cosa ci rende umani.
Recensioni
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Morandini, la montagna come una prigione bianca
In questi ultimi anni la letteratura di montagna non sta risalendo la china: se l’è lasciata ampiamente alle spalle. Basti pensare al successo di Cognetti con le sue Otto montagne (Premio Strega 2017), oppure a scrittori come Erri De Luca, Franco Faggiani e Walter Bonatti.
Il dato – bisogna essere sinceri – colpisce. Colpisce se non altro per lo stato di salute di una letteratura, quella di montagna, che in molti erano pronti a dare per morta (qualcuno di voi ha più visto in libreria i romanzi di Charles-Ferdinand Ramuz?), eppure…
Eppure è una primavera, quella che la letteratura di montagna sta vivendo in questi ultimi tempi, una nuova stagione di cui è protagonista anche Claudio Morandini, insegnante di lettere aostano, che con il suo Neve, cane, piede (138 pagine, 13 €) – edito da Exòrma è già alla terza ristampa. Neve, cane, piede colpisce innanzitutto per il titolo – strambo, questo va detto -, un titolo che con un gioco intellettuale coinvolge il lettore, ignaro del legame fra le tre parole, ma a cui la soluzione del rebus viene data nelle prime pagine del romanzo. Neve: la storia è ambientata nelle Alpi innevate; cane: c’è un cane che scorta il protagonista; piede: c’è il piede di un cadavere che riemerge da una slavina.
Pertanto Neve, cane, piede è un giallo pur non essendolo affatto: non c’è un detective, non ci sono testimoni, non c’è una falsa pista; c’è solo il protagonista in questo romanzo: Adelmo Farandola, uomo solo. Invecchiato tra le valli inabitate e ignorato persino dai parenti, Adelmo raggiunge il villaggio solo sporadicamente; tutti lo evitano, nessuno gli crede, qualcuno lo compatisce: è un personaggio “deviato”, forse gravemente malato di Alzheimer, oppure affetto da una forma di ritardo mentale. Ma la devianza è il pane di tutte le storie e la letteratura ci insegna che anormale è normale: così il lettore si affeziona presto ad Adelmo, al suo disadattamento, alla sua solitudine piena di umanità. ? frutto di quest’ultima, la stramberia che fa da nerbo a tutta la storia: Adelmo parla col suo cane, e, come se non bastasse, gli mette in bocca delle battute di tutto punto, tali da generare veri e propri dialoghi, a tratti comici:
“Qualcuno bussa alla porta nei lunghi giorni d’inverno. […].
– Chi è? – chiede il vecchio, ma quasi sottovoce, perché non vuole sapere davvero chi bussa. E fermo, zitto, il respiro esitante.
Il cane lo osserva, in attesa. – Che faccio, abbaio? – dice.
– No, fermo.
– Io d’istinto abbaierei.
– Lo so, ma non farlo. Quelli se ne andranno presto.
– Dici?”
Si tratta di un artificio narrativo efficace che dice molto di più di una lunga descrizione; un “dialogo monologico” che restituisce il polso della complessità, delle paure e del carattere dialettico della natura umana. La prosa di Morandini, poi, è agile, si distende con una sintassi esile, dalle poche proposizioni. Il punto di vista è una terza persona limitata e soggettiva, una tecnica narrativa a cui il Novecento ha fatto ampiamente ricorso: in altre parole la storia è scritta in terza persona, ma “la cinepresa” si trova nella testa del protagonista. In questo modo il lettore vede, sente e conosce soltanto ciò che vede, sente e conosce Adelmo, di cui però non può fidarsi ciecamente, viste le sue condizioni psicologiche. Ne viene fuori una scrittura sincera, comica e spietata.
Offre anche spunti, il romanzo di Claudio Morandini: spinge a riflettere sulle estreme condizioni di vita in alta montagna, sulla solitudine che diventa malattia, sull’ostilità alla diversità, e, non per ultimo, sulle dinamiche del villaggio. Contro il protagonista, infatti, la comunità esercita la ferocia del pettegolezzo e la violenza di irridenti sguardi di sottecchi, sancendo il definitivo distaccamento di Adelmo dalla vita sociale e il conseguente isolamento nelle valli deserte.
In questo chiave di lettura, Neve, cane, piede non tinteggia affatto la montagna come luogo ameno in cui meditare e osservare la natura, ma ne studia il potere emarginante; della montagna offre una distopia, piuttosto, prigione bianca da cui è difficile scappare.
Recensione di Dario Levantino
A leggere i romanzi di Claudio Morandini, complice forse il suo essere scrittore appartato e di confine, si ha sempre l’impressione di trovarsi al cospetto di un autore davvero poco comune: per quel rimanere concentrato sul dettato, sul ritmo della frase, sul tono dominante, esatto, da imbeccare a ogni nuova prova; per quel cimentarsi e sperimentare su terreni sempre nuovi. E più di tutto colpisce, sia detto di passaggio, l’assoluta disinvolta libertà di “allungare lo sguardo” dove gli pare, pur rimanendo intatta, in lui, la responsabile cognizione di ciò che finora è stato scritto, ma soprattutto del come (che trapela da ogni sua pagina, permea ogni atomo della sua scrittura). Al punto che potremmo dire che nel suo blasone a campeggiare sia il gusto, tutto stravinskijano, del gioco artigianale e svagato con gli elementi messi a disposizione dalla tradizione. Fedele a un realismo “largo”, il cui spettro coniuga precisione e visionarietà, amore per il dettaglio e straniamento, i suoi libri assomigliano perlopiù a vere e proprie partiture: dalla Rapsodia su un solo tema(Manni, 2010), con lo straordinario personaggio Rafail Dvoinikov, alla sinfonia del teatrino osceno di A gran giornate(La linea, 2012); fino a quest’ultimo Neve, cane, piede che potremmo definire una sonatina dalla struttura tripartita, e già replicata a principiare dal bislacco titolo, nel quale appaiono, allineati, proprio gli elementi essenziali attorno ai quali, abbandonato l’incedere sontuoso del romanzo precedente, la narrazione si coagula. Ma da dove origina questa “avventura da niente”, “poco più che un accordo di attacco”? La trama è esilissima. In un vallone isolato delle Alpi, vive Adelmo Farandola, un vecchio scontroso, assuefatto alla solitudine, dalla vacillante memoria (“qualcosa non va nella sua testa”), la cui sola compagnia è un cane petulante. La sua vita scorre identica, scandita dai segni che annunciano l’avvicendarsi delle stagioni, impegnato a soddisfare la teoria naturale dei bisogni elementari, fino a quando, con il disgelo primaverile, non vede affiorare, dal fronte di una valanga abbattutasi sulla vallata, un piede umano.
A dominare è un senso di spaesamento, di distaccata mancata presa sulle cose; al punto che non è più distinguibile la realtà dalla visione, le immagini offuscate dei ricordi dalla quotidianità: un senso d’indeterminatezza che coinvolge perfino il paesaggio. Adelmo Farandola abita, insomma, un limbo dove tutto – memorie, accadimenti reali, percezioni – si confonde: al centro di questo imbuto si trova lui, alla ricerca di un contatto sicuro, di un dato concreto. Parla con il cane, si vede sfilare intorno fantasmi, personaggi che un attimo ci sono e quello dopo finiscono per svanire; le sue sono “transumanze” involontarie tra un mondo e l’altro, tra il visibile e l’invisibile. Per marginalità e bizzarria al limite del comico, Adelmo Farandola potrebbe certamente appartenere alla tragicomica galleria di stralunate figurine dei tarocchi dispiegate e montate ad arte in A gran giornate; e Neve, cane piede leggersi senz’altro come incunabolo, separato, che pure a quell’eterocosmo finzionale potrebbe essere ricondotto. Ciò che emerge da quest’affilata breve partitura è, ancora una volta, la preoccupazione (al limite dell’ossessione patologica) di Morandini per la messa a fuoco del racconto, la scelta della cadenza adatta: in una parola, della voce.
Per quanto nel capitoletto in appendice, Storia di questa storia, che agisce peraltro come implicita dichiarazione di poetica per quell’insinuato seminale rapporto di reciprocità tra realtà e finzione, si rimandi alla lezione di certi scrittori di montagna (Ramuz, Camenisch, Tuor, Peer), il romanzo sensoriale di Morandini, pur nelle ampie concessioni ai topoi delle storie di montagna (il vecchio burbero solitario e scontroso, la natura aspra, la vita dura), oltrepassa il genere per spostarsi, piuttosto, sul terreno della fiaba moderna, come accade, per dirne una, con il Moresco de La lucina (2013) e Fiaba d’amore (2014). Protagonista, infatti, non è la vita di montagna, ma appunto l’allegoria di un’esistenza estrema, sulla soglia di un inevitabile trascorrere (fatto questo che ci riporta all’atmosfera di A gran giornate). E se altrove si è accostato Morandini alla parabola di autori come Permunian e Mari, qui, il rimando al tema del limite – “quella zona franca tra i due mondi”–, ci riporta a un vero e proprio filone narrativo che annovera, accanto ai classici Parise e Piovene, narratori contemporanei come (oltre al già citato Moresco) Giovanni Mariotti, ed esordienti come Orazio Labbate e Carmen Pellegrino.
Recensione di Domenico Calcaterra
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