Si tratta di un romanzo strano ma per niente sperimentale, fatto di racconti autonomi ma affacciati l'uno sull'altro, pieno di guizzi ma scritto in una lingua piana, che aderisce dolcemente alle cose e agli stati di cose. Lo ha scritto Alessandro Trasciatti, francesista ma postino, e prima ancora archivista; quindi, tra 2008 e 2011, pure editore dei "Libratti", collana economica di letteratura illustrata nata dall'esperienza di un blog (in linea con quell'idea, ognuno dei dodici capitoli di Il dottor Pistelli è illustrato dal tratto beffardo di Nazareno Giusti). Ma, ma e ma: il tanto insistere sulla congiunzione avversativa non è casuale. Questo Pistelli è sempre un passo indietro rispetto a dove dovrebbe essere. O un passo oltre. Si fa chiamare "dottor" e non si è ancora laureato; fa l'archivista e poi diventa un sovversivo; gli va male con le donne eppure, appena l'amore si presenta, lui non gli dà credito, oppure lo insegue quando è già tardi (e gli esempi potrebbero proseguire). Si sarà notato che Pistelli, come l'autore, è stato archivista, e come l'autore a un certo punto diventa postino. Nella nota introduttiva Trasciatti conferma la somiglianza, "ma questo non vuole dire che tutto quello che capita all'uno sia capitato anche all'altro. A volte sì, a volte in parte, a volte no ma avrebbe potuto". I modelli di Trasciatti potrebbero essere due autori come Antonio Delfini e Robert Walser, al netto delle distanze; lo fanno pensare la sua misura, la prosa limpida e allegra, la presa soggettiva sulla realtà, e la levità con cui tocca la disperazione facendola subito evaporare. Un altro libro di Trasciatti, bellissimo, Prose per viaggiatori pendolari (Modydick, 2002), già metteva in luce tali caratteristiche attraverso racconti minuscoli, piccole parabole o forse allegorie, quadri perfettamente risolti nelle immagini e nella forma. E nella loro trama: ciò che segna una prima distanza, nonostante l'indole divagatoria, da certo Walser. Il nome di Delfini valga invece, in secondo luogo, da esempio di scarsa fortuna di una scrittura come questa (senza trauma ma pure senza nostalgia del trauma) e di un'opera che fin qui comprende anche un altro romanzo, più tradizionalmente inteso (La via dell'orco, 2008) e una dozzina di plaquette in prosa e in versi con piccoli editori d'arte. Certo potrebbe trattarsi soltanto di una questione di destini; l'augurio è che non lo sia, che almeno in questo senso, pure rispetto a Delfini, si profili una certa distanza. Andrea Cirolla
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